Il pifferaio tragico

C’era una democrazia parlamentare, in Italia, e c’erano dei partiti che esponevano un programma e chiedevano il voto: dopodiché, in base agli esiti e quindi al voto, formalizzavano un premier indicato direttamente o indirettamente dagli italiani. Mancando l’elezione diretta del premier, il nome nel simbolo o i partiti carismatici ovviavano al problema. Bene: tutto questo, assieme al bipolarismo, ora viene ritenuto superato e da scompaginare.

Nei fatti abbiamo un premier in pectore (mai eletto in vita sua) che sta mandando avanti i partiti, i quali – indipendentemente dai voti che otterranno, soprattutto dal Paese che sonderanno – potranno aderire o non aderire a un’agenda programmata in precedenza, senza l’ausilio di un contributo democratico anche minimo. Le elezioni, in pratica, si prospettano come un passaggio burocratico che possa eleggere dei consiglieri di amministrazione dediti a nominare il loro supremo delegato, incurante o quasi di chi i consiglieri siano effettivamente: anche perché devono soltanto sceglierlo e adeguarsi all’agenda preconfezionata. Gli italiani, cioè, possono eleggere i partiti che vogliono, ma poi i partiti devono nominare lui nel dopo elezioni, la fase che conta davvero.

E’ pur vero che il Presidente della Repubblica – giustamente ansioso di non figurare due volte come un designatore di premier non eletti – ha già detto che incaricherà soltanto un vincitore «politico» delle elezioni, ma ci sono probabilità che un vero vincitore non ci sia. Non lo sarebbe chi difettasse di una maggioranza in Senato, per esempio.
Monti punta su questo, sulla difficoltà che i vincitori possano avere nel mettere in piedi un governo che governi. Da qui una campagna tesa a rottamare il concetto di destra e di sinistra (che bene o male resiste in tutto l’Occidente) e che è indirizzata a una generica «società civile» che rifiuta i politici professionisti e si apre a non-eletti come lui, selezionati da una piccola oligarchia di stretti collaboratori. In pratica non c’è un esercito che esprime una guida: c’è un pifferaio magico che in tempi di crisi diviene tragico.

Un centrismo, più che un centro. Una via scelta per molte ragioni: non sporcarsi con faccende di consenso e di campagne elettorali, mirare a quel genere di consacrazione già tributatagli dalle banche europee e dal Ppe, non ultimo il voler «preservare la sua figura di super partes» come gli aveva già consigliato Massimo D’Alema. Ma la ragione principale è ancora più semplice e spietata, come lo sono i sondaggi in circolazione: Monti ha visto che il suo nome su una lista, sua o altrui, non fa poi questa differenza. Il professore è acclamato dai partiti (e poteri vari) molto più che dagli italiani: da qui l’angoscia di dover decidere se presentarsi direttamente alle elezioni (improbabile) o con più liste ispirate al venerato maestro. E da qui, dunque, un complicato gioco di benedizioni o di scomuniche che riguarda appunto un «centro» che in sé non esiste e che è appannaggio di tutti e di nessuno.

È come se Monti stesse valutando i candidati per un franchising: Riccardì sì, Montezemolo forse, Casini e Fini nì, mentre non è chiara la parte che avrebbero degli arnesi insignificanti come Frattini e Pisanu o altri montiani di complemento. Naturalmente il professore ha già indicato i curriculum ideali dei sostenitori o componenti del suo prossimo governo: no perditempo, no populisti berlusconiani, no leghisti, no grillini, no sinistra sindacale e manettara. Ma in sostanza gli vanno bene tutti: basta che non rompano le scatole esattamente come non gliele hanno rotte durante il governo scorso. Monti non scende in campo, né vi sale: è già in campo, non si è mai mosso da Palazzo Chigi – da dove conduce la sua campagna elettorale – e vuol continuare a giocare in eurovisione e al tempo stesso a porte chiuse. Ha pure indicato delle linee-guida sulla base della sua celebre agenda, tre voci tuttavia così genericamente condivisibili da escludere soltanto i già fuori gioco: 1) non dissipare i sacrifici già fatti; 2) proseguire con le riforme; 3) tagliare la spesa pubblica per sgravare la pressione fiscale. Ma sono necessità, più che opzioni: come le ovvietà sugli «asili nido», sul «volontariato» e su un prezzemolesco «meno casta».

Altre voci dell’agenda, più che altro, servono a prevenire eventuali accuse di omissione: una rinnovata «natalità», una nuova visione della donna, genericamente «il lavoro» più una spolveratina finale sul falso in bilancio e sul conflitto d’interessi, tanto per allettare anche qualche manettaro. Mancano i giovani, a ben vedere. Mancano anche gli anziani e gli esodati. Manca una spiegazione chiara circa la spremitura fiscale che è servita per rimpinguare il fondo salva-stati. Manca una parola sulle grandi opere. Zero sulle questioni ambientali. E zero su faccende da idealisti o, peggio, da politici old style: giustizia, carceri, diritti civili, bioetica, politica estera intesa non solo come commercio estero. Omissioni dovute a cinismo – si guarda solo al soldo, in tempi di crisi – ma ancor più probabilmente perché a un tecnocrate si chiede attenzione ai numeri, una postura da curatore fallimentare, i conti a posto come etica prima ancora che necessità. Avrà tutto il tempo di rettificare il suo ufficio propaganda, Monti: condurre una campagna elettorale da Palazzo Chigi ha i suoi vantaggi, anche se condurla contro il Pdl – o contro il Pd, fa lo stesso – e utilizzare una carica ottenuta con il concorso del Pdl e del Pd, in effetti, suona strano. Un’anomalia, ma è una sola delle tante.

Si giudica più interessante che Mario Monti, da ieri, abbia un profilo su Twitter. Tutte le strade riportano a Roma.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera