C’è un caso Sallusti

Questo articolo + carteggio con Pierangelo Maurizio è stato pubblicato su Libero negli scorsi due giorni. Astenersi commentatori del livello «non esiste un caso Sallusti» o «la legge è uguale per tutti».

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È una questione di principio grande come una casa: eppure la maggioranza dei «colleghi» non lo capisce o finge di non capirlo o più probabilmente non ha un’indipendenza morale sufficiente per capirlo. Capire che Sallusti non è Sallusti: è un giornalista. Non è il direttore del Giornale: lo è di un giornale. Ciò che è diverso, nel caso Sallusti, non è una sua particolare responsabilità rispetto ad altri casi analoghi o similari, ma è il trattamento ad personam che hanno voluto riservargli e che in potenza potrebbero riservare a qualsiasi giornalista o direttore che incorra nella riscoperta «diffamazione», grave e ricorrente incidente professionale in cui inciampano anche migliaia di giornalisti politically correct. Le condanne per diffamazione le hanno avute anche i Montanelli, i Biagi, i Bocca e soprattutto tanti direttori pienamente in attività che ne hanno centinaia (centinaia) anche se nessun giudice si è mai permesso di bollarli come «delinquenti abituali» socialmente pericolosi, bensì, al limite, solo come giornalisti che hanno scelto di esporsi e di pagarne un prezzo economico e legale. Ma questo prezzo non è mai stato la galera, nè qui né in nessun paese civile.

Forse il cervello atrofizzato di tanti colleghi ha scambiato tutta questa faccenda per l’ennesima degenerazione del bipolarismo muscolare: ma che un giornalista non debba finire in carcere – non per il reato addebitato a Sallusti – lo dice la Convenzione europea per i diritti dell’Uomo, lo dice l’Organizzazione per la sicurezza e l’organizzazione in Europa, insomma non lo dicono soltanto gli amici di Sallusti: posto che è diventato difficile riconoscerli. Ecco perché stanno a zero tutti i bla bla, i distinguo, i «ma però», le solidarietà a costo zero in due righe su Twitter, i cerchiobottismi e gli ambeduismi e gli acquattismi di chi non capisce che ciò che succede a Sallusti – giornalista – sta succedendo anche a loro. Ecco perché i dibattiiti fifty-fifty, a saldo a zero, non servono a niente: ci sono volte in cui fare di tutta l’erba un fascio può anche servire, volte in cui bisognerebbe solo ammettere che c’è un collega che è stato condannato alla galera e che lui, per protesta, aveva chiesto soltanto di poterci andare, senza i se e i ma che invece tanti di noi, ora e invece, distillano nei vacui teatrini di un parolame senza sbocco.

La legge? La piantino di tirare in ballo la legge sbagliata e le colpe dei politici: quelle sono assodate, ma la legge è sbagliata da decenni e a fare la differenza può essere solo la volontà di applicarla in un modo o nell’altro. Nel caso di Sallusti abbiamo un giudice querelante, due pm di primo grado e d’Appello, due collegi giudicanti e una Corte di Cassazione che hanno espressamente voluto la galera laddove migliaia di loro colleghi non l’avevano mai voluta e si erano limitati ad ammende e a pene sospese. C’è stato un salto di qualità che è figlio di questo tempo e che scivola nell’incapacità dei giornalisti di essere una corporazione vera, qualcosa che non si limiti a invocare rinnovi del contratto. Il Procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, che ha comunque fatto i suoi sforzi per limitare gli effetti di una sentenza sproporzionata benché formalmente ineccepibile, forse temeva che mettere un direttore in carcere avrebbe provocato una mezza sollevazione: è tristissimo constatare quanto si sbagliava.

Nel Paese in cui tutto si accomoda, Alessandro Sallusti ha tirato dritto e si è limitato a invocare la galera (vera) a cui l’avevano condannato: e per averla invocata, rifiutando i domiciliari, ora gliene vogliono affibbiare altra. Questo per l’ironia piccola e imbecille di chi descrive per la centesima volta la fatidica «prigione dorata» che lo vede comunque privo della libertà. Sono tanti gli assurdi di tutta questa storia: ma la varietà di buoni e miti consigli che sono giunti e giungono a Sallusti – scritti o sussurrati – sapevano e sanno di scappatoia, di consigliata furbizia, di paternale per l’ottusa coerenza, di possibili soluzioni oblique rispetto alla via maestra che rimane roba da stolti, da quadrati, da poco italiani che non sanno neppure arrangiarsi. Questo, discretamente, hanno mormorato anche tanti giornalisti: i quali non è che non vogliono fare battaglie per Sallusti, semplicemente non vogliono fare battaglie e basta. Non ne sarebbero in grado. Mentre Sallusti, la battaglia, la sta facendo e non glielo stanno perdonando.

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Caro direttore,
ti conosco da troppo tempo e so che pubblicherai anche se stavolta stono. Ma francamente questa uscita di Filippo Facci non l’ho capita. Dice, anzi scrive, che l’arresto di Alessandro Sallusti «è una questione di principio grande come una casa ma la maggioranza dei “colleghi” – ndr, tra virgolette – non lo capisce, o finge di non capirlo o più probabilmente non ha un’indipendenza morale sufficiente». E questa dell’“indipendenza morale sufficiente” ci mancava. Filippo davvero non riesce a immaginare che si possa, sbagliando certo, pensarla diversamente da lui?

Ecco, anche io che mi ritengo suo amico la penso diversamente e finirò tra virgolette. Do la massima solidarietà ad Alessandro e, se posso, firmo l’appello per la grazia. Ma penso che la sentenza della Cassazione, mostruosa, sia una trappola in cui siamo cascati con tutte le scarpe. E penso che pretendere che i giornalisti siano esentati dalla galera, a prescindere come direbbe Totò, sia un boomerang che ci tornerà sulla testa.

Cerco di spiegarmi. Il “caso Sallusti” non dipende dalla legge sulla diffamazione ma dalla sua interpretazione. La Cassazione ha reso esecutiva la condanna per la sua “pericolosità sociale” e l’“attitudine a delinquere”. Come si possa, poi, passare da una multa di 5mila euro in primo grado a 14 mesi di carcere, qualcuno dovrebbe spiegarlo. Cioè è un problema di discrezionalità (enorme e abnorme) dei giudici.

Detto questo, in questi mesi di ampio dibattito non ho capito: ma perché per principio i giornalisti non dovrebbero andare in carcere? Proprio noi che ogni un per due siamo pronti a mandare in ceppi e catene mezzo mondo: di volta in volta, i politici, la malasanità, i celerini che menano… Ecco, è pensabile che i poliziotti o i medici se sbagliano non vadano in galera? Ovviamente no. Forse le parole fanno meno male di una pistola o di un bisturi? Ovviamente no. Anzi, qualche volta di più. E da oggi se gli agenti trovano qualcuno evaso dai domiciliari devono prendere per buona che era una “provocazione”?

Rinunciare alle nostre responsabilità fornisce, come sta fornendo, un alibi per azzopparci e azzittirci un altro po’. Firmiamo i nostri “pezzi” non perché siamo belli e importanti. Ma perché è il nostro patto di fedeltà. Per dire: “caro lettore/ascoltatore/telespettatore/internauta, con il massimo scrupolo, dopo aver sentito tutte le fonti attendibili, le cose per come ho potuto capire sono andate così”. Quindi per esercitare il nostro diritto-dovere a informare dobbiamo essere serenamente pronti alle conseguenze. Carcere – come extrema ratio e di fatto possibilità remota – compreso. Questo Alessandro ha dimostrato e di questo dovremmo ringraziarlo.

Ma, con tutto l’affetto, questa storia è anche frutto di una serie di errori. Francamente non ho capito perché rispetto ad una notizia sballata, pubblicata per prima dalla Stampa, non ci sia stato il modo di pubblicare una rettifica. Hai fatto benissimo, caro direttore, a pubblicarla tu. E finora si sono sentite le scuse solo di Renato Farina-Dreyfus. Tutte le proposte avanzate per la nuova legge sulla diffamazione sono un “pasticciaccio”. Meglio tenerci la vecchia legge (magari più equa, magari aggiornandola riguardo al web…).

Visto che ci siamo. Lo sciopero annunciato e rimangiato dal sindacato? Un bluff. Per far vedere, dopo anni di politicizzazione esasperata, che si difende tutti, anche gli “avversari”. La Fnsi farebbe meglio a indire scioperi per difendere veramente la libertà di informazione, a cominciare dalle condizioni economiche della maggior parte di chi fa questa professione. Purtroppo anche Facci non lo capisce, o finge o non ha (lasciamo perdere il “più probabilmente”) “un’indipendenza morale sufficiente”.
Ps: scusa Filippo, ma che vuol dire?

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(risponde Filippo Facci)

Caro Pierangelo,
anch’io ti conosco da troppo tempo per non sapere che il tema – Sallusti e la libertà di stampa – per te è molto più importante dei tuoi eventali dissensi con ciò che ho scritto. L’unica cosa che ti avrei chiesto è di non pormi domande alle quali ho già risposto nello scritto che te le ha suscitate. E l’unica domanda che mi ha infastidito, per il resto, è quella sull’indipendenza morale, espressione a te aliena. Ti do due risposte. La prima è questa: cerca su Google. La seconda è quest’altra: l’indipendenza morale, per esempio, è quella di un giornalista che ha la dignità di dimettersi da Repubblica – come facesti tu, nonostante avessi famiglia – per dissensi insanabili che avrebbero calpestato oltremodo la tua dignità personale. Rimanesti disoccupato per anni. Ecco, ti do quest’altro indizio: l’indipendenza morale è qualcosa per cui occorre saperne pagare un prezzo. Tu lo pagasti. Sallusti lo sta facendo.

Terminata la fellatio, passiamo al merito. Io non penso affatto che non si possa pensarla diversamente da me (o da altri) sul caso Sallusti e sul carcere per i giornalisti: io infatti non me la prendo tanto con chi dissente radicalmente – anche se non ti nascondo che i forcaioli li disprezzo – bensì con gli ignavi, con chi finge di non capire o, peggio, con chi capisce benissimo e però «non ha un’indipendenza morale sufficiente» e cioè non ha i coglioni – va bene così? – per trasformare il proprio dissenso in qualcosa che superi un’alzata di spalle o una mezza frasetta infilata via Twitter.

Tu scrivi che il caso Sallusti non dipende dalla legge sulla diffamazione ma dalla sua interpretazione, ciò che ha reso esecutiva una sua condanna per «pericolosità sociale» e «attitudine a delinquere». Beh, è da mesi che non scrivo altro, come ho fatto anche ieri; nello scritto che non ti è piaciuto ho elencato uno per uno i responsabili che la carcerazione l’hanno espressamente chiesta e voluta e ottenuta: ossia i magistrati, a partire dal querelante che non ha scelto la via della causa civile e non ha ritirato la querela.

Tu scrivi che «c’è un problema di discrezionalità enorme e abnorme dei giudici», perfetto: peccato che a pensarla così sembra quasi che siamo solo io e te e Sallusti, perché all’alba del 2013 criticare la sacralità dei giudici genera ancora processi alle intenzioni se non processi veri e propri.

Tu ti chiedi perché i giornalisti, per principio, non dovrebbero andare in carcere: non lo so, non lo penso, anzi, penso che dovrebbero andare in galera per violazione del segreto istruttorio. Non penso, invece, che dovrebbero andarci solo per un articolo (tantomeno per un omesso controllo) e sicuramente non per un caso come quello di Sallusti, che grida vendetta proprio perché i suoi precedenti per omesso controllo (sei in tutto, se ricordo bene) sono incredibilmente inferiori, per numero e qualità, a quelli di altri direttori che nessuno ha mai chiesto che andassero in carcere, anche perché, se fosse successo, la nostra categoria avrebbe fatto i fuochi d’artificio. E comunque mi permetto di sovvertire la retorica della tua domanda laddove ti chiedi se «le parole fanno meno male di una pistola o di un bisturi»: ebbene sì, fanno meno male, la penso così, penso cioè che anche il giudice Cocilovo – il famoso querelante – preferirebbe un altro articolo di Sallusti a un proiettile o un’amputazione della gamba sbagliata, e, di passaggio, preferirebbe trenta articoli di Sallusti a un’odissea nella malagiustizia favorita da suoi colleghi che non pagano mai e poi mai. Sallusti invece paga per l’articolo che a questo punto è diventato il più rettificato della storia. Secondo te è giusto, se ho capito bene. Secondo me no. Tu firmeresti l’appello per la grazia. Io no.

La legge sulla diffamazione fa schifo, non è in linea con gli altri paesi civili e col diritto internazionale: ma se ha sempre retto, in qualche modo, è perché il buonsenso ha mediamente orientato chi doveva applicarla. Quando il buonsenso viene progressivamente meno, però, l’unica strada è togliere quella legge dalle mani degli onnipotenti. Il buon senso è venuto meno? Se Sallusti – un direttore – è finito dentro per un articolo che non ha neppure scritto, la risposta è sì. Se per una cosa del genere sono entrati a prenderlo in un giornale, la risposta è sì. Se sono vere le segnalazioni che mi hanno fatto ultimamente – l’ultima ieri – e che riguardano altri giornalisti per i quali è stato chiesto il carcere senza condizionale, la risposta è sì.

Vuoi che te la dica tutta? Il mio garantismo – cominciato a 16 anni, quando raccoglievo firme ai tavoli dei Radicali – va in crisi soltanto in un caso: quando è dimostrabile che un giornalista ha scritto il falso sapendo di scriverlo. Vuoi un esempio? C’è un manichino stitico di nome Marco Travaglio – uno che non fa altro che sfottere il Sallusti galeotto, vigliacco com’è – che è stato condannato penalmente con «prova del dolo» e cioè sapendo di diffamare: sentenza del 15 ottobre 2008, confermata in Appello l’8 gennaio 2010, prescritta il 4 gennaio 2011 senza l’opposizione del condannato. Lui che aveva scritto un milione di volte che una prescrizione equivale a una condanna. Ecco, con uno così il mio garantismo vacilla per qualche secondo: ma solo per qualche secondo. C’è una sola ragione al mondo per cui vorrei Travaglio in carcere: per dimostrargli che meriterebbe la stessa precisa battaglia che merita Alessandro Sallusti.

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Il sottostante è un intervento del presidente delle Camere Penali, che preferisco non nominare.

So che susciterò la vostra riprovazione, ma confesso che ho peccato: sono intervenuto a più riprese su Facebook. Lo so, lo so, non si fa, ma il mio istinto missionario mi ha indotto in tentazione perché ho visto come in un gruppo chiamato “penalisti” l’indirizzo generale degli interventi fosse di marca forcaiola, della serie “cazzo vuole Sallusti, privilegiato, i miei poveri clienti li arrestano per molto ma molto meno”.

Ora, è vero che Sallusti non è il cliente ideale, però è anche vero che la vera battaglia contro la pena di morte si fa sul colpevole, altrimenti è una molto più facile battaglia contro l’errore giudiziario. Tuttavia, poiché gli indigeni sono rimasti sordi alle mie predicazioni – rispondendo sempre, e piccati!, se era un altro vedi dove andava, e la casa di 900 metri quadri, e Bruti è scandaloso, eccetera eccetera – mi viene il dubbio d’essere io fuori dal mondo ed allora vi trascrivo quello che avevo accuratamente scritto per sapere cosa ne pensate.

Tenete conto che arriverà la grazia e qualcosa su questa vicenda in qualche modo ci toccherà dirla.

Il direttore di un quotidiano nazionale non è uguale agli altri, negarselo non aiuta alla comprensione. Nel bene e nel male è un caso a sé: nel male, allorché gli notificano subito, anziché dopo due anni, l’ordine di esecuzione (con invito nei 30 giorni eccetera), nel bene, quando Bruti fa i salti mortali per dargli la svuotacarceri d’ufficio.

Fosse finita qui la questione sarebbe semplice, ed anche produttiva per i cittadini che vedrebbero mutare in meglio la giurisprudenza milanese (in questo senso, il messaggio degli avvocati non è “Cornuti, dovevate mandare Sallusti in galera” ma “Bravi, adesso mandate anche gli altri ai domiciliari “.

La questione si complica perché i sostituti e lo stesso Sallusti si ribellano a Bruti dicendo “Sallusti in galera”. Entrambi in ossequio alla legge, ma con finalità opposte: i primi per ostentato rispetto del processo e della pena, al di là di ogni valutazione di opportunità; il secondo, viceversa, per disprezzo del processo.

Non si tratta, allora, della galera per reati di parola (comprendendo nell’espressione l’opinione ed il cattivo racconto dei fatti), ma dell’accettazione o meno del processo, delle sue regole, dei suoi giudici e delle sue sentenze. In chiave ghandiana, ma ritorniamo un po’ ai tempi delle brigate rosse.

E noi avvocati? Come dice Cataldo, mai dire “Tizio vada in galera” (e non occorre declinare le idee politiche a riprova dei propri convincimenti). E tuttavia, il processo ed il giudicato sono la ragione del nostro esistere, per cui l’esecuzione della sentenza non si discute, ed a maggior ragione il reato d’evasione.

Ma il rispetto della legge non va declinato con ipocrisia, come fanno i sostituti ribelli che fingono che i criteri di opportunità non entrino nel loro lavoro e non debbano essere addirittura l’essenza del lavoro del loro capo. Noi avvocati il problema delle conseguenze sbagliate di una legge (galera per la parola) dobbiamo porcelo, anche mentre la legge è in vigore. Forse soprattutto mentre la legge produce i suoi guasti.

In definitiva, come avvocato mi sento di auspicare che si faccia ogni cosa perché non si mandi in galera il direttore di un giornale per il suo lavoro, compresa la grazia (per inciso, se fosse vero che c’è stata la moral suasion di Napolitano, allora staremmo toccando con mano la scomparsa di Loris D’Ambrosio); ma se il direttore decide di farne una battaglia di civiltà andando in carcere, credo (1) che non glielo si possa e neanche glielo si debba impedire, (2) e che occorra valutare spassionatamente e sul piano dei principi se quella battaglia sia giusta o sbagliata.

Lo dico anche in prevenzione, perché verrà il tema delle condizioni detentive e non vorrei che, una volta a San Vittore, inizi la conta dei benefici che Sallusti avrà. Perché li avrà, ed è normale che sia così. Anche i direttori seguono criteri di opportunità, lo sappiamo tutti: come Bruti, senza per questo meritare di essere additati come bruti.

Ci sono due piani, quello della disparità di trattamento e quello della disobbedienza civile. Il primo è meno interessante e ci omologherebbe ai sostituti milanesi che fingono di essere bocca della legge, di non operare scelte, d’ignorare l’opportunità a favore della legalità: non è così e lo sappiamo. Da Ghandi a Milosevic chi diventa simbolo viene trattato diversamente. Allora, lasciamo stare i paragoni con i nostri clienti diseredati e vediamo se il simpatico (ironizzo per suggerire di non giudicare di pancia, sennò il verdetto è scontato) Sallusti combatte una battaglia giusta o sbagliata. Se giusta, le “nostre” seconde file godranno degli effetti in via indiretta, come gli indiani sottomessi dagli inglesi grazie al privilegiato Ghandi. Se sbagliata, stabiliremo una volta per tutte che non solo “si può” (come astrattamente e per lo più platonicamente previsto dalla legge in questo come in altri casi) ma addirittura “si deve” andare in carcere per qualcosa di detto.

Pensateci, se Sallusti non fosse antipatico, così come quando cala il sole compaiono le stelle, allora vedremmo le cose che stanno sullo sfondo. Allora parleremmo di «caso Bruti», dividendoci tra chi valuta che giustamente il procuratore abbia fatto una scelta di opportunità e chi crede, al fianco dei suoi sostituti insorti, che i magistrati mai debbano rispondere, e di fatto rispondano, a scelte di opportunità. Parleremmo dunque di legalità di facciata e discrezionalità effettiva, ma tutti noi, comunque, saluteremmo con favore il cambio di indirizzo della procura di Milano sulla svuotacarceri ed a nessuno salterebbe in testa di dire «no, Bruti sbaglia, Tizio vada in carcere». Allora parleremmo della sostenibilità democratica dell’equazione «parola=carcere», e ne parleremmo in modo non banale, avendo di fronte un caso in cui la parola è stata pesante e non ritrattata.

Allora parleremmo, non solo del diritto di criticare la sentenza, su cui siamo facilmente tutti d’accordo, ma anche dei modi estremi di criticarla, chiedendo che sia eseguita senza sconti e facilitazioni (in fondo è questo che sta facendo scandalo). Allora parleremmo di un sistema sanzionatorio che spesso usa il carcere come mera enunciazione e non come meditata e commisurata risposta al reato o come qualcosa da comminare in concreto. Allora parleremmo del percorso alternativo al carcere che, per non essere finzione scenica, squalificandosi, dovrebbe diventare esso stesso la sanzione diretta al posto del carcere. Insomma parleremmo di questo e di altro, e non faremmo vittimismo facile sui nostri assistiti derelitti, cosa che ci confermerà pure buoni cristiani e buoni democratici, ma ci impedisce di accorgerci, prima che sia tardi, che l’immagine di un direttore portato in carcere per quanto è stato scritto sul giornale è brutta, davvero brutta. Questo Bruti l’ha capito e per impedirlo ha esercitato in pubblico la discrezionalità, cosa che un magistrato fa normalmente ma in privato. Perciò la Casta lo attacca ed io, da avvocato penalista, mi sento di doverlo difendere.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera