Ciriaco Ingroia

Prima – come dicono in televisione – va fatta una premessa, anzi una domanda. Questa: ma Antonio Ingroia quando lavora? Lui e Giulio Cavalli (che non è il suo stilista, ma un «attore, scrittore, regista e politico italiano») ieri avevano organizzato la presentazione di un libro proprio durante la partita dell’Italia, peraltro prevista da mesi. Hanno dovuto rinviare dopo trattativa. Il libro era Palermo, gli splendori e le miserie, l’eroismo e la viltà (Melampo) di Antonio Ingroia, uscito un mese dopo Io so. Antonio Ingroia racconta il ventennio berlusconiano (Chiarelettere) e quattro mesi dopo Il sentimento del giusto, un dialogo nel tempo con Paolo Borsellino a cura di Antonio Ingroia, che oltretutto non si perde un convegno o una comparsata ma soprattutto rilascia interviste a raffica.

Dopodiché le interviste di Ingroia sono meravigliose, perché le rilascia per dire che non è il caso che rilasci interviste e risponde a domande per dire che non può rispondere a certe domande: dopodiché risponde a tutte le domande, ma lo fa in palermitano, inteso non come dialetto ma come somma di allusioni e circonlocuzioni ampollose (dico/non dico) che farebbero sembrare cristallino Ciriaco De Mita. Tra l’altro – a proposito di tempismo e di libri da presentare proprio quando gioca l’Italia – va detto che Ingroia doveva intervenire anche alla festa de Il Fatto Quotidiano – nei pressi di Reggio Emilia – nei giorni in cui c’è stato il terremoto: hanno dovuto rinviare, e senza trattativa. Certo, mica è colpa sua.

Terminata la premessa, eccoci finalmente all’intervista rilasciata a Repubblica di ieri da Antonio Ingroia, procuratore aggiunto della procura distrettuale antimafia di Palermo. Un capolavoro dei suoi. Una sua tecnica discorsiva e prudenziale, molto borbonica e spesso in uso anche ad Antonio Di Pietro, è premettere una cosa e poi dire il contrario. Del tipo – stiamo inventando, ovviamente – «io non ce l’ho con tizio, ma vorrei che tizio morisse», oppure «io sono un garantista, ma penso che tizio vada torturato coi ferri ardenti». Ingroia, nell’intervista, usa questa tecnica per negare le evidenze che persino un intervistatore come Salvo Palazzolo, competente ma non ostile, è costretto a fargli presente. Il giornalista gli chiede del pressing dell’ex ministro Nicola Mancino per far intervenire addirittura il Quirinale nell’indagine sulla fantomatica «trattativa». E Ingroia risponde «non mi sembra il caso che io commenti» e poi ovviamente commenta, dicendo che lui (loro) non hanno mai ricevuto o ceduto a condizionamenti e pressioni. Palazzolo gli fa presente che lo stesso Mancino aveva citato un’apparente mancanza di coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta e Firenze (che indagavano sui misteri del ’92 e ’93) e gli chiede se questi dissidi ci siano stati: «Credo proprio di no», risponde Ingroia a dispetto della verità e della cronaca più notoria, e chiusa lì. Palazzolo gli dice che Mancino è stato messo sotto intercettazione nonostante fosse un semplice testimone, che non è una cosa da poco, e Ingroia risponde che «abbiamo messo gli atti a disposizione delle difese, che potranno leggere le motivazioni dettagliate». In pratica non risponde, ammettendo solo che temeva che Nicola Mancino potesse concordare con altri le versioni da riferire.

Poi la spara ancora più grossa: «Trovo le conclusioni dei colleghi di Caltanissetta (che assieme a quelli di Firenze indagano sulle stragi, ndr) del tutto convergenti con quelle di Palermo». E Palazzolo è costretto a ricordargli che il pm Paolo Guido non ha neppure firmato l’atto di chiusura dell’indagine, per non parlare – aggiungiamo noi – del ruolo fondamentale che i pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo attribuiscono ai complicati racconti di Massimo Ciancimino, un teste che la procura di Caltanissetta ha completamente demolito in quanto «i suoi comportamenti appaiono inspiegabili alla luce dei più elementari principi della logica». Ma a Ingroia la sua verità basta dirla: «Non mi pare che si possa parlare di divisioni». Stop. E fa niente se ci sono sentenze che hanno escluso un «concorso esterno» da parte di Marcello Dell’utri e Calogero Mannino dopo il 1992: «Non si imputa loro di aver contribuito a rafforzare cosa nostra». Ah no? E che cosa gli imputate, allora? «Dell’Utri avrebbe fatto da tramite per alcune specifiche minacce di proseguimento delle stragi, pervenute al presidente del consiglio dell’epoca, Silvio Berlusconi». E che reato è? Mistero. E Mannino di che è accusato, precisamente? «Attentato a corpo politico dello Stato». E Nicola Mancino? Falsa testimonianza. L’ex ministro Giovanni Conso più o meno anche: false dichiarazioni ai magistrati.

Tutti ripieghi laterali per occultare un semplice dettaglio: il reato di «trattativa» non esiste, e Ingroia sta cercando di ricavarlo sommando altri reati tutto sommato improbabili ma drammatizzati con la complicità di giornali e giornalisti amici. Salvo Palazzolo a quel punto gli fa presente che anche un professore di diritto penale come Giovanni Fiandaca (non proprio il primo che passa) ha detto che non si può contestare a dei politici una «trattativa» che avesse l’obiettivo di evitare altre stragi e che perciò scegliesse (legittimamente) di alleggerire la strategia antimafia. E Ingroia: «Nessun politico è accusato di aver trattato con la mafia… non sono incriminati per concorso in trattativa». Che non esiste, peraltro. Dunque: di che stiamo parlando precisamente? Qual è la vera rilevanza delle indagini di Ingroia? Provate a spiegarlo a uno straniero, se ci riuscite. Se avanza tempo, anche a noi.

(Da Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera