Travaglio, o della noia

Forse Marco Travaglio non sta bene. Premetto che non ho nessuna voglia d’infilarmi nella milionesima polemica con lui: anzi, resta un collega che stimo, nonostante la vanità lo mortifichi e benché lui scriva, talvolta, delle vere e proprie infamie. Io lo ammetto per pudore, lui non fa altrettanto perché è un poveraccio.

E veniamo all’ultima spettacolare sciocchezza, anzi alla penultima. Sabato, innervosito dal proscioglimento di Berlusconi, ha scritto questa frase: «Prima che a condannare o ad assolvere, i processi servono ad accertare i fatti». Il che si traduce in una totale ovvietà (non puoi condannare o assolvere, se prima non accerti i fatti) o in una stortura molto italiana: soprattutto se applicata a quei processi che rimarranno privi di conseguenze penali (perché sai già che andranno in prescrizione, per esempio) e quindi non sono praticamente finalizzati a ciò a cui è costituzionalmente preposto il sistema penale, cioè a condannare o ad assolvere in nome del popolo italiano: perché servono, questi processi, soltanto a redigere copiose motivazioni della sentenza (sentenza sterile, di prescrizione) e quindi solo a infarcire i libri di Travaglio con la consolazione che Tizio, se non fosse risultato prescritto e dunque «non colpevole», magari ecco, sarebbe stato giudicato diversamente.

Da qui una profusione di «fatti» e verità giudiziarie (non storiche) che i topi di procura utilizzano per dire che il processo comunque si doveva fare, e che non è stato cioè solo uno spreco di tempo e di denaro. Peccato che il potere giudiziario non serve a questo: perché il potere giudiziario – e qui siamo all’abc – è quel potere che deve permettere in via definitiva e autonoma di risolvere una controversia di natura civile o penale o amministrativa (secondo le diverse giurisdizioni) applicando la legge, punto. Per dirla male, i fatti sono i mezzi, e le sentenze – quelle che assolvono o condannano – sono i fini. L’obiettivo è redigere sentenze esecutive nell’interesse della collettività, mica elaborare seghe dietrologiche care a Ingroia, e da Travaglio e altri fissati della «vera storia d’Italia».

Detto questo, Travaglio è andato fuori di testa. Dopo una serie di insulti d’ufficio, su Il Fatto di giovedì, ha scritto che «il tapino» (sarebbe lo scrivente) «non sa che da anni la Corte Costituzionale ripete che il processo serve all’accertamento della verità». Una frase generica che vuol dire poco, come detto, ma che Travaglio suffraga con cinque sentenze della Corte Costituzionale: le numero 24 e 254 e 255 del 1992, la 60 del 1995 e infine la 361 del 1998. Ora: già scrivemmo che il metodo Travaglio è anche questo, cioè la citazione selettiva di inesattezze di cui nessuno si accorge perché lui è così «documentato» che nessuno si prende la briga di andare controllare, tantomeno i lettori o i colleghi. E allora fate così: provate a farlo. Provate a controllare le citate sentenze della Consulta e verificate direttamente se siano incentrate su quello che dice lui. Ma manco per niente: sono sentenze che parlano dell’applicazione dell’articolo 513 del Codice, quello che durante Mani pulite consentiva all’accusa di limitarsi a rileggere in aula i verbali strappati in carcere perché diventassero delle prove, ciò che consentiva a un accusatore, cioè, di sottrarsi al confronto con l’accusato. Parlano di questo, le sentenze: ripeto, andate a vedere. Poi magari certo, sparse qua e là ci trovate anche frasi tipo «la giurisdizione penale deve tendere il massimo possibile all’accertamento della verità», o meglio ancora, ecco, «lo scopo essenziale del processo consiste nella ricerca della verità e in una decisione giusta» (n.254 e 255 del 1992). Laddove l’obiettivo, appunto, è una decisione giusta attraverso la ricerca della verità.

Potremmo anche chiuderla qui, se non fosse per un ultimo dettaglio: tutte le sentenze citate da Travaglio – che in ogni caso parlano d’altro – sono state clamorosamente superate dalla modifica costituzionale del 9 novembre 1999 con doppia lettura alla Camera e al Senato: una riforma sacrosanta che trasfuse il 513 nell’articolo 111 della Costituzione, la più importante riforma degli ultimi vent’anni in tema di giustizia, e che il documentato Travaglio si era meramente dimenticato di citare. Una riforma che oltretutto non fece Berlusconi: la fece il governo D’Alema col ministro della Giustizia Oliviero Diliberto. In sintesi: Travaglio, per argomentare e gettare fumo negli occhi, cita sentenze della Corte Costituzionale che non solo non c’entrano niente, ma sono state superate addirittura da una modifica della Costituzione.

Il problema – e lo avrete capito anche da questo articolo sin troppo lungo – è che smentire puntualmente Travaglio serve a fare il suo gioco vanesio e legittimante, roba che oltretutto fa perdere un sacco di tempo perché la quantità di asserzioni omissive che dice o scrive è talmente clamorosa da rischiar di consumare tempo e articoli che meritano di meglio. Per dire: Travaglio ha concluso il suo articolo, venerdì, dicendo che sono un «impiegato di Craxi e di Berlusconi» e che «lavora per i ladri». Il giorno prima mi aveva dato dello «scemo di guerra». Dovrei replicare? Non sono mai stato impiegato di Craxi né dei socialisti, ma solo brevemente un abusivo dell’Avanti! – e me ne vanto pure. Sono stato dipendente Mediaset e solo collaboratore del Giornale berlusconiano, che invece stipendiava Travaglio. Ho scritto libri per Mondadori esattamente come Travaglio, che per essa scrisse due libri nel 1994 quando Berlusconi era già ampiamente in campo e oltretutto possedeva Mondadori da tre anni. Dovrei continuare? È così interessante? Preferisco graziarvi: oggi si è fatta un’eccezione ma è giusto rimanere su questioni più importanti: per buona pace di quei lettori che con gli sputtanamenti di Travaglio si divertono un casino. Accade ben altro. Per esempio: Travaglio è vivo, ma è morto Lucio Dalla.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera