L’antimafia dei mentecatti

È vero, sì, forse il processo per la strage di via D’Amelio è il più spaventoso fallimento della storia giudiziaria siciliana. E ora la novità – secondo Repubblica di lunedì – è che il pentito Vincenzo Scarantino venne pure torturato perché lanciasse false accuse sulla strage di via d’Amelio, quella che uccise Paolo Borsellino. Non era noto, in effetti, il verbale del settembre 2009 in cui Scarantino racconta di sevizie forse auspicate dal superpoliziotto Arnaldo La Barbera, morto dieci anni fa. Non si conoscevano neppure le conferme verbalizzate da Salvatore Candura e Francesco Andriotta, amici di Scarantino e pure loro minacciati perché accusassero tizio e caio. Sono testimonianze importanti, e ci sono tre poliziotti che in caso di riscontri potrebbero essere processati a Caltanissetta.

Quella che non è una novità manco per niente – e su questo gli amici di Repubblica e il fronte antimafia potrebbero fornire spiegazioni – è che il drogato analfabeta Vincenzo Scarantino fosse un personaggio inaffidabile. Non è una novità, poi, che una dozzina di pm e una trentina di giudici hanno dato credito spropositato a un personaggio del genere, e soprattutto non è una novità che a vent’anni dall’assassinio di Borsellino non abbiano ancora scoperto i veri esecutori e mandanti: questo per inseguire quelli occulti, di mandanti, e il terzo livello, Ciancimino e i papelli, le agende rosse, le «entità», il «signor Franco», tutte le spettacolari cazzate che per ora hanno raggiunto un solo e sommo risultato: lasciare i colpevoli in libertà e mandare all’ergastolo degli innocenti, come ha dimostrato inoppugnabilmente l’autoaccusa – questa sì, riscontrata – dell’ormai celebre Gaspare Spatuzza, l’uomo che rubò la Fiat 126 che fu imbottita di tritolo e che massacrò Borsellino.

La Corte d’Appello di Catania ha da poco scarcerato sette imputati che erano in galera dal 1993 per le false accuse di Scarantino: neppure questa è una novità. Hanno fatto dei processi infiniti e sacralizzati: il Borsellino primo, il Borsellino bis, il Borsellino ter, i vari appelli e le cassazioni, undici giudizi in totale: e tutti avendo come faro Vincenzo Scarantino, personaggio che – prima – ritenevano evidentemente affidabile.

Ora i disconoscitori di Scarantino spuntano come funghi. Il più noto è Antonio Ingroia, che in un recente libro l’ha messa così: «Le dichiarazioni di Scarantino a carico di Bruno Contrada erano minuziose e precise, apparentemente riscontrabili… quelle che riguardavano Berlusconi, invece, erano generiche e indimostrabili… L’esito fu sconfortante… Non era stato acquisito alcun riscontro… Diedi incarico alla polizia giudiziaria di indagare. Quelle dichiarazioni si rivelarono non convincenti come, ormai è accertato, non lo era il teste». C’era senz’altro da capirci di più, dato il calibro dei personaggi interessati: c’era da verificare la fondatezza delle dichiarazioni, e c’era da verificare, se infondate, quale manovra o depistamento fosse in corso. Ma degli esiti di queste indagini non abbiamo notizia. Non risulta che Ingroia abbia denunciato Scarantino per nessun reato. Non risulta neppure che Ingroia abbia riversato il verbale nel fascicolo processuale o in quello del pubblico ministero: cosicché le varie difese non l’hanno neppure mai visto.

Troppe cose non sono chiare. Scarantino era un meccanico semianalfabeta del rione Guadagna, drogato, riformato per schizofrenia, sposato ma anche fidanzato coi transessuali Fiammetta, Giusi la sdillabrata e Margot: non proprio l’archetipo dell’uomo d’onore. Ma venne ritenuto credibile. I boss Salvatore Cancemi e Mario Di Matteo e Gioacchino La Barbera, alla voce Scarantino, dissero che non l’avevano mai sentito nominare. Giovanni Brusca, in aula, dimostrò che era un ballista spaziale, un palese balordo che tuttavia convinse i giudici d’essere l’uomo che Totò Riina incaricò di una delle stragi più importanti della storia d’Italia. Lo stesso Riina – il racconto è di Brusca – si era lamentato che il fallito attentato dell’Addaura, quello contro Falcone, fosse stato affidato a «’na pocu di picciutteddi»: ma dopo una simile esperienza, per la strage di via D’Amelio, si sarebbe rivolto direttamente a un mentecatto.

Il primo racconto di Scarantino a proposito di false accuse indotte da poliziotti, oltretutto, è addirittura del 1993: «Vistiri ‘u pupu… Mi ficiru inventare tutti ‘i cosi…’u verbale lu fici iddu poi mi fici firmare…». In padano: mi hanno fatto inventare tutto, il verbale lo hanno fatto e poi me lo hanno fatto firmare. Ma è una ritrattazione che allora non interessava. Anche la moglie di Scarantino ha testimoniato che prima di ogni udienza, a casa loro, si presentava gente per un ripasso delle cose da dire in udienza. Nel settembre 1998, ancora, Scarantino mette a verbale: «C’era la dottoressa Palma che mi diceva le domande che mi doveva fare l’avvocato… Mi preparava delle cose che io dovevo rispondere l’avvocato, e già io avevo la cosa come rispondere». Non sono io che scrivo male, è lui che parla così.
Se andate spulciare i giornali dell’epoca scoprite però che a ogni rilievo veniva accusato di mafiosità e di «delegittimazione della magistratura» e insomma: il solito torrone. Diceva il pm Annamaria Palma sul Corriere della Sera del 16 settembre 1998: «Dietro questa ritrattazione c’è la mafia… Cosa nostra ha trovato un’altra strada, dimostrando di sapersi adeguare». Diceva il pm Antonino Di Matteo, due mesi dopo, in una requisitoria: «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni… L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa nostra… Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarsi di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di fare esplodere il sistema giudiziario».

Difficile pensare che tra costoro potessero esserci anche il giudice Alfonso Sabella, l’informatico Gioacchino Genchi, il collaboratore di Borsellino Carmelo Canale, persino Ilda Boccassini: nel 1994 era a Caltanissetta e lasciò una relazione in cui affermava che riteneva Scarantino completamente inattendibile. Ma non bastò. Il senatore Pietro Milio della lista Pannella, nel febbraio 1999, presentò un’interrogazione al Guardasigilli per via di un verbale – reso da Scarantino nel 1994 – che era pieno di annotazioni e correzioni poi regolarmente recepite. Non ebbe risposta.
Sinché apparve un certo Gaspare Spatuzza, 17 anni dopo, che non solo non accusò Berlusconi e Dell’Utri, ma dimostrò inoppugnabilmente che a portare la famosa Fiat 126 in via D’Amelio era stato lui. Dopo il processo Andreotti, forse, sì, è il più spaventoso fallimento della storia giudiziaria siciliana.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera