Siamo razzisti? Sì.

Nel giornalismo nostrano uno più uno fa quattro: se si succedono due episodi a sfondo xenofobo, ergo, scatta immediatamente la focalizzazione del trend, del filone, del refolo che si è fatto tornado: questo anche se non ci fosse necessariamente nessun trend, nessun filone, nessun refolo che si è fatto tornado. I due episodi ovviamente sono il duplice omicidio di due senegalesi da parte del suicida Gianluca Casseri (definito «di destra» prima ancora che pazzo e in cura da anni) e poi il caso della ragazza torinese che si è inventata lo stupro di due rom e ha favorito un raid punitivo nel vicino campo nomadi.

I tentativi di cogliere nei due episodi un qualche «spirito del tempo» sono stati declinati in vari modi e in vari commenti: qualcuno ha additato un consueto e pericoloso rigurgito di destra, altri hanno cercato di intercettarvi un trend europeo e hanno tirato in ballo Breivik, lo stragista di Oslo, altri ancora hanno paventato virus sociali potenzialmente contagiosi, un importante esponente del Pd ha detto che i fatti di Firenze «sono frutto di un clima di intolleranza alimentato in questi anni», e non pochi, ancora, hanno cercato un nesso – testuale – «tra la crisi del debito europeo, l’impotenza dei summit malinconici e la strage dei due senegalesi». Un’emittente privata ha invitato lo scrivente a un talkshow così sintetizzato: «La crisi crea i pazzi». E se nessuno ha tirato in ballo direttamente Berlusconi è solo perché si è dimesso: il che, a pensarci, è una sciocchezza in qualsiasi caso.

Nel sintetizzare tutte queste tesi siamo stati volutamente generici perché non vogliamo ridicolizzarne nessuna, anche se in qualche caso verrebbe facile; vorremmo limitarci a dire – sobriamente, of course – che le probabilità che i due episodi non significhino assolutamente nulla hanno la stessa dignità statistica di tutte le altre tesi, messe così le cose. Il che non significa che è quello che pensiamo, e che cinicamente, da cinici e reazionari, siamo qui che facciamo spallucce per concludere tipicamente che non succede mai niente, che tutto è sempre un refolo e mai un tornado. Il punto non è questo. Il punto è che non avere certezze è diventato un disvalore. Devi sempre avere una tesi a pronto uso: ebbene, colpo di scena, non ce l’abbiamo. Lo stragista di Firenze era un folle che prendeva psicofarmaci da una vita, la ragazzetta di Torino è una mitomane che sconfina nel cretinismo: il contesto disegnatelo voi.

Parentesi. Se i vari mitomani o assassini inventano sempre lo stupro o l’effrazione a opera di un rom o di un romeno (eccetera) non è solo perché sono dei razzisti o perché pescano nel torbido della xenofobia: ma perché, purtroppo, in questo modo risultano più credibili. E non risultano più credibili puntando sull’intolleranza arcaica e popolare, non gliene frega niente di questo: risultano più credibili perché Rom e romeni (eccetera) commettono percentualmente più reati degli italiani e anche di altre etnie immigrate. Fine parentesi.

Anche perché in realtà volevo dire un’altra cosa. Poco natalizia. Domanda: che cosa uscirebbe da un sondaggio sui pregiudizi degli italiani sugli zingari? Ma non solo degli italiani. Azzardo una risposta. Uscirebbe che una percentuale quasi totale, da destra a sinistra, dall’alto in basso, pensa che si tratti di un popolo di ladri, di rapitori e se va bene di accattoni. Credo che si debba prenderne atto: nei loro confronti sopravvive l’unica forma di razzismo puro presente oggi in Italia, mentre tutto il resto è xenofobia. Esistono rom onestissimi, accampamenti stanziali che non hanno mai creato problemi: ma non gliene frega niente a nessuno, probabilmente neanche a me. Non c’è futuro per i rom, intesi come nomadi, come zingari, come volete: non c’è da nessuna parte. Dati alla mano, i rom corrispondono a un problema sociale e purtroppo criminale: è difficile fingere che buona parte di loro non tenda a compiere reati con regolarità, a non integrarsi nella comunità che li circonda, a non scegliere uno stile di vita alternativo per sé e soprattutto per i figli.

L’allargamento della Ue e le nuove ondate migratorie non sono una causa, ma una conferma. Per via della loro astrazione e separatezza – espressione che ad alcuni ricorderà qualcosa – i rom sono perlopiù disinseriti da qualsiasi circuito culturale che non sia quello compassionevole o amante delle sottoculture: basti che l’Olocausto nazista dei rom resta l’unico, con quello ebraico, che i nazisti delegarono a motivazioni esclusivamente razziali. Ma pochi amano ricordarlo. I rom furono sterminati in quanto razza inferiore destinata non alla sudditanza, come altre, ma alla morte e basta. Furono imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici e infine gasati. Ad Auschwitz sopravvissero solo quattro zingari maschi, e il celebre dottor Mengele amava iniettare la malaria ai piccoli rom. L’Olocausto ebraico prende il nome di Shoah, quello degli zingari si chiama Porrajmos, che significa Distruzione. Ma questa è considerata, appunto, sottocultura, roba da preti, roba che adesso non c’entra niente.

Può essere. Io, del resto, non non sto facendo del pietismo: mi limito ai fatti. Ed è un fatto, pure, che la maggior parte dei rom dipende dalla beneficenza statale e che i loro livelli di scolarità sono inesistenti, spesso vivono in caseggiati senza né acqua né elettricità, i loro mestieri tradizionali sono scomparsi, campano spesso di furti ed elemosina e in parte di economia marginale, tipo raccolta di ferro vecchio e cartoni, vendita per strada di fazzoletti e di fiori. Qualcuno fa ancora il giostraio, trascina piccoli circhi, le famiglie Togni e Orfei sono di origine sinti. La gente comunque non li sopporta, e anche i più tolleranti – a parole – girano al largo, e se li incrociano stringono i figli contro di sé e con essi i cordoni della borsa. Non esiste un altro popolo per il quale siano state organizzate delle ronde mirate, per il quale sia stato appiccato il fuoco alle tendopoli. Non importa la differenza tra un romeno, un rumeno, un rom, un rom romeno, un rom non romeno, un rom polacco, uno zingaro, un sinti, un gitano, un semplice nomade. È un razzismo che non fa discriminazioni.

Potete contestualizzarlo, spiegarlo, ma si chiama razzismo: credo l’unico – vero – che ci è rimasto. Da noi si tende a gridare al razzismo per ogni sciocchezza, a confondere con questo termine ogni intolleranza, distinguo, pregiudizio o anche solo giudizio. Ed è insopportabile. Ma ciò non toglie che questo sia razzismo e basta. E non è che i giornali, tutti i giornali, non ne tengano conto nell’inseguire gli umori popolari. Nel maggio 2008 tutti i maggiori quotidiani scrissero che al quartiere Ponticelli di Napoli avevano tentato di rapire una bambina: non era vero, ma per ritorsione – di un fatto falso – una ventina di giustizieri aggredirono un romeno che non c’entrava nulla, e pestarono e accoltellarono un operaio che aveva un lavoro regolare e che non viveva neppure in un campo nomadi. Poi, a Catania, due rom si fecero quattro mesi di galera per un altro rapimento farlocco: assolti, ma sui giornali neppure una riga. Ricordo che rilevai la cosa sulla prima pagina del Giornale e debbo dire che raramente, in lettere o mail di commento, mi era capitato di rilevare tanta freddezza o aggressività da parte dei lettori. Ricordo pure che menzionai che La Fondazione Migrantes (centro studi della Cei) aveva commissionato una ricerca all’università di Verona circa i tentati rapimenti addebitati ai rom dal 1986 al 2007, e che l’esito spiegava questo: «Non esiste alcun caso in cui viene commesso un rapimento, nessun esito corrisponde a una sottrazione dell’infante effettivamente avvenuta». La freddezza che ne ricavai fu anche maggiore.

Ora non mi aspetto niente di meglio, eppure io, ripeto, non sto difendendo i rom: a meno che il semplice parlarne in termini crudi, e cercar di chiamare le cose col loro nome, non sia reputata una difesa d’ufficio. Quindi non mi si dica, ora, cose tipo «prenditeli a casa tua», o più spesso «se li prendano in Vaticano» – come lessi in molti commenti sul web quando scrissi cose analoghe. Io non li voglio a casa mia, il Vaticano non so. Ma almeno si dica la verità, dopodiché ricominciamo a discuterne. Si può scegliere se abbinarvi un aggettivo (per esempio: giustificato, indotto, cercato, inevitabile, giusto) ma razzismo rimane.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera