Dov’è l’errore?

Oggi tutto sembra possibile, sembra che basti un balzo per scalare ciò che ieri pareva l’Everest: privatizzare, vendere il patrimonio dello Stato, abbattere le province e i piccoli comuni, tassare i patrimoni, toccare le pensioni, i privilegi, cambiare le aliquote, cambiare la Costituzione, abolire addirittura la barberia di Montecitorio: tutte riforme impensabili, sino a ieri. Non solo tutto si può fare, adesso, ma l’invocazione a farlo è così risoluta da rendere patetiche e flebili tutte le voci storiche e parassitarie che sembravano moloch indistruttibili, valichi insormontabili: i sindacati, le corporazioni, tutte le categorie che sembrano voci di sottofondo, serie B del dibattito, tagli bassi sulle pagine de l’Unità.

Perciò la domanda potrà sembrare banale, sterile, ma pure inevitabile: come mai sembra tutto possibile, ora, mentre prima niente lo sembrava? Detto con ottimismo: come mai non si è fatto niente, prima, mentre ora potrebbe farsi tutto? Dov’è l’errore?

Ci sono di mezzo l’Europa e i mercati internazionali – ti spiegano – e non potevamo più scappare: perché il debito e il Pil e la spesa pubblica, la Grecia, i parametri eccetera. Ma anche qui: non si capisce se le forche caudine dei mercati, per noi, siano il problema o la soluzione; non è chiaro, cioè, se i nostri guai decennali alla fine dovranno maledire la crisi oppure ringraziarla, come se la crisi, appunto, rappresentasse un’occasione irripetibile, un’opportunità. È ciò che pensa, senza troppo dirlo, la media e medio-alta borghesia di questo Paese, gente che, pur bestemmiando contro tasse e contributi eventuali, patisce la crisi meglio di altri perché bene o male un lavoro ce l’ha.

Qualcosa tuttavia continua a stridere. Tutto faremo e tutto è possibile – è la sintesi – perché ora ce lo chiede il mondo: ma perché, dite, gli italiani che cosa chiedevano? Gli italiani, da decenni, che cosa votavano? Gli italiani o una buona parte di essi – gente che spesso ha vinto le elezioni, o così pensava – che cosa avevano letto nei programmi elettorali, che cosa avevano ascoltato negli sproloqui televisivi?

Dietro la risposta a queste domande, per nulla retoriche, si cela la verità sulla valenza di un’intera Seconda Repubblica: sulla consistenza di una classe dirigente, cioè, che dovrebbe spiegarci perché negli ultimi vent’anni non è stato possibile realizzare anche molto meno di quanto si preannuncia oggi. I neo frondisti del Pdl potrebbero spiegarci perché sembravano solo dei sudditi silenti e accondiscendenti, prima, mentre ora imbracciano fucili e interviste come i ribelli di Tripoli. I leghisti potrebbero spiegarci perché sembravano allineati e coperti nell’attaccare lo stato assistenziale, prima, e ora fanno comunicati sulle pensioni che manco la CGIL. Le opposizioni cosiddette responsabili potrebbero spiegarci che cosa davvero vorrebbero fare, ora, perché vabbeh, non si capiva neanche prima. Ciò che va compreso, di passaggio, è se in questo Paese esista ancora uno straccio di politica in grado di prendere delle decisioni anziché subirle e basta: da oltreconfine, nel caso, o ancora, e spesso, dall’ultimo e più straccione dei maledetti sondaggi. Perché forse c’è un Paese, là fuori, da qualche parte, che vorrebbe davvero sapere che cosa farà in definitiva questa classe politica (tutta) in un momento terrificante come questo; un Paese, voglio dire, a cui non frega niente di ridurre tutto a pacchetti di 500mila voti persi o guadagnati alle prossime elezioni. Un Paese che vorrebbe capire se esista ancora uno straccio di idea politica, l’ombra di un programma, un mandato popolare: e non, soltanto, parole e riflessi trascinati da un vento di stagione. Ci facciano sapere.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera