Che cosa vuole Di Pietro

Di Pietro fa ridere, ma Di Pietro non fa ridere. Di Pietro è pericoloso, anche se noi lo esorcizziamo ridendo: e ora che si atteggia improvvisamente a moderato-inamidato, tutto impettito e rinceppato, è anche più facile capire il suo gioco. Lo vedi tutto trattenuto, represso, coi mannaggia rinfoderati nel carniere, mentre spende pubblicamente ogni parola che impara (ormai ne conoscerà almeno duecento) e mentre estrae, dal nulla, concetti addirittura logici: è stato tra i primi a raccogliere le firme, ma adesso dice improvvisamente che «chiedere le dimissioni di Berlusconi in nome dei referendum è una strumentalizzazione». Eccolo perciò occhieggiare agli elettori che gli interessano: «Sono andati a votare anche molti elettori del centrodestra, per rispetto nei loro confronti non possiamo chiedere le dimissioni del governo solo in nome dei referendum».

Tutta qui l’analisi? Di Pietro, cioè, mira ai berlusconiani delusi come un Casini qualsiasi, che infatti ha ripetuto più o meno le stesse parole? Ma non è un’analisi da poco, visto che la classe politica degli ultimi quindic’anni mostra di non averlo capito. Di Pietro negli ultimi anni è stato liquidato, cooptato, inglobato, esaltato come se ogni sua sparata corrispondesse a una sua relativizzazione, a una forma di controllo: ma dove andasse a parare, Di Pietro, nessuno ha mostrato di saperlo. Si dice che questa sua virata derivi essenzialmente dalla mazzata delle amministrative, che per l’Idv sono state come gli acquedotti pubblici: ha perso, lungo il percorso, almeno il 40 per cento. Si dice che i voti se li siano presi Grillo e Vendola, ed è vero anche questo: l’estrema sinistra in libera uscita, ospitata da Di Pietro, sta disordinatamente tornando all’ovile. Tutto innegabile, ma è soltanto l’accelerazione di un disegno ambiziosissimo come Di Pietro è.

«Berlusconi in galera» è restata e resterà la cosa più di sinistra che Di Pietro abbia mai pronunciato: nella storia dell’ex magistrato, a ben vedere, di sinistra non c’era mai stato niente. Non le sue radici contadine e democristiane, non l’individualismo come scuola di vita e come istinto naturale, non mestieri ed esperienze che l’avevano portato ad approdi di destra quasi fisiologici e temperati. Prima democristiano come la mamma, poi il Movimento sociale, in generale «di area moderata» come suo padre. Le sue dimissioni da magistrato, in fondo, coincisero con la presa di coscienza che gli entusiasmi nel Paese stavano scemando ma non certo dalle sue ali, bensì da quell’eterno «centro moderato» che unicamente e paradossalmente, in Italia, aveva permesso una rivoluzione giudiziaria: prima di stancarsene. Alle politiche del 1994 Di Pietro votò Forza Italia, alle regionali del 1995 votò il Centro cristiano democratico (dov’era candidato suo cognato) mentre Casini, all’epoca, già si vendeva la pelle dell’orso dopo averlo a lungo corteggiato. Poi Di Pietro fonderà e seguirà il suo partitello itinerante nelle sbandate per Romano Prodi e per l’Asinello di Arturo Parisi.

È inutile fare l’elenco degli estremismi pronunciati dal trattorista negli ultimi anni: per Di Pietro le parole non valgono nulla, è acqua passata. Quando l’Italia dei Valori raddoppiò i voti, alle Europee del 2009, i flussi evidenziarono che solo una percentuale oscillante tra il 5 e il 10 per cento percepiva la collocazione dell’Italia dei Valori come propriamente a sinistra; da un 15 a un 25 per cento, invece, lo immaginava nel centrosinistra, mentre nel centrodestra lo immaginava un arco tra il 10 e il 15 per cento; solo un 5 per cento, infine, lo immaginava a destra. Morale: l’Italia dei Valori era un partito di centro, e l’espansione elettorale di Antonio Di Pietro nell’area moderata veniva valutato da un minimo del 23,5 per cento a un massimo del 30 per cento. Da qui certi suoi comportamenti sottotono, quasi discreti: Di Pietro sa bene che a larga parte degli elettori che non importa nulla degli scandali sessuali, così come mai, a proposito di immigrazione clandestina, lo sentirete gridare alle «leggi razziali» come fanno certe truppe di sinistra. Per anni ha sparato cazzate inenarrabili, due anni fa ha persino detto che «potrebbero tornare sia le Br pilotate che quelle non pilotate». Per anni ha soffiato su ogni fuoco e ha cercato di rendere permanente una crisi che solo un gendarme come lui potrebbe riordinare, pensa. Da contadino ha seminato, ora punta alla vendemmia.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera