Un discorso da snob

Santoro parla di Santoro, i giornali parlano di tv, la tv parla di giornali, i giornalisti si intervistano tra di loro, si querelano, si accusano l’un l’altro di non essere giornalisti: chissà se in mezzo a tutto questo riusciremo a organizzare anche una bella puntata televisiva su che cosa sia rimasto di questa nostra professione, su che lavoro facciamo, sulla differenza tra informazione e intrattenimento, sulla differenza tra ciò che è importante e ciò che è interessante, su che cosa sia una notizia nell’anno di grazia 2010.

Perché vedete, noi giornalisti spesso siamo solo dei politici mancati o dei servi riuscitissimi, misuriamo tutto con la politica e trattiamo la cronaca come se fossero dei giochi da circo da elargire alla moltitudine dei beoti: e poi ci stupiamo del turismo dell’orrore attorno al caso di Sarah Scazzi, e magari additiamo tutti quei mostri che la domenica si vestono da tronisti e se ne vanno ad Avetrana anziché al centro commerciale e magari ci portano pure la famiglia, i figli, i bambini di quattro anni; ma è inutile fingere che i mostri non siamo soprattutto noi, noi che li fomentiamo, li spingiamo, li creiamo. Se è vero che una notizia è la comunicazione di un fatto di pubblico interesse, beh, spiace dirlo, molti di noi – soprattutto se lavorano in televisione – fanno un altro lavoro da anni. Il pubblico interesse è giusto calcolarlo, ma non crearlo o fomentarlo; il pubblico interesse non può essere solo ciò che ci pare interessi alla gente peggiore: altrimenti, presto, apriremo le prime pagine col Grande Fratello o col prezzo delle cipolle. Il pubblico interesse dovrebbe essere anche minimamente – sissignori – educato: le notizie più e meno importanti esistono ancora, non sono solo una seccatura prima della quotidiana porzione di prurigine e prima della ricetta della pajata.

Il pubblico interesse, se non disturba, dovrebbe corrispondere anche a informare circa i migliaia di altri delitti che non hanno mai trovato spazio perché ogni pagina era impegnata ad analizzare le zone di Cogne o Avetrana meglio del campo di battaglia di Waterloo, e impegnata quindi a discutere, litigare, sentenziare. Poi non stupitevi se restiamo un popolo di colpevolisti o innocentisti da stadio, dove proscioglimenti e condanne vengono decretati dall’Auditel, dove tanti giornalisti straparlano di un presunto «dovere di informare» che genera solo mostri i quali noi giornalisti peraltro inseguiamo, montiamo e alla fine risputiamo. Il problema non solo esiste, ma è il più importante che ormai riguardi l’informazione: i nostri telegiornali, che dovrebbero attenersi solo a fatti di pubblico interesse, stanno lasciando che a stabilire i confini di questo interesse sia appunto soltanto il pubblico, o meglio la percezione che ne abbiamo noi boriosi giornalisti. I notiziari in senso stretto cedono perciò il passo al cosiddetto infotainment e al netto delle idiozie gossipare e degli omicidi seriali (un omicidio in teoria dovrebbe valere l’altro) a giustificare una notizia è sempre più la presenza di un’immagine, di un video, di un particolare che suggestioni anziché informare. Il 90 per cento delle notizie che riguardano il delitto Scazzi non ha nessuna importanza, nessuna rilevanza, non sono neanche notizie: ma, quel che è peggio, copre una moltitudine di altri accadimenti che sono reputati indegni di pubblicazione.

Il Tg1, l’altro giorno, ha dato la prima notizia di esteri dopo venti minuti – ne parlava Wittgenstein – e come se non fosse accaduto niente di così importante, quel giorno, nell’intero mondo. Il problema è che ogni barriera tra «importante» e «interessante» è caduta – scusate se la faccio breve – e ogni ciarpame e ogni gossip rosa viene santificato nelle più alte sfere. Medici senza frontiere, dopo l’estate 2008, presentò un rapporto sulla presenza o assenza di certe notizie sui media nazionali. Risultato: un mese di colera nello Zimbawe, con la fuga di centinaia di migliaia di persone sottoposte a ogni violenza, aveva meritato 12 citazioni nei telegiornali Rai e Mediaset, mentre l’estate di Briatore ne aveva ottenute 33; un anno di guerra e siccità in Etiopia aveva meritato 6 citazioni mentre Carla Bruni ne aveva ottenute 208. Questo senza tener conto che lo sport e le previsioni del tempo hanno ancora più citazioni, com’è ovvio. Il punto non è dove arriveremo, ma dove siamo già: dite, è un discorso da snob, questo?

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera