Abbiamo il problema di Belen

Non so se Belen Rodriguez debba andare o no a Sanremo, me ne importa zero, non so neppure se la ragazza sia intrisa di quella «contrizione operosa» descritta da Alessandro Meluzzi in un suo articolo – su Libero, ieri – che pare scritto da un gesuita. E’ un problema morale, non penale: in Italia il singolo consumo di cocaina non è neppure considerato reato e non è detto che il sindaco di Sanremo – che non vuole Belen al Festival – ne fosse al corrente. Il caso Morgan, l’anno passato, fu un’altra cosa: lo stralunato cantante aveva inneggiato pubblicamente alle droghe come fonte creativa, mica ne aveva parlato a verbale davanti a un magistrato come ha fatto Belen. Ma il punto non è neanche questo. E non può bastarci neppure il bollare come oggettivamente ridicola la proposta del solito Carlo Rienzi (Codacons) che vorrebbe introdurre un test antidroga per tutti i cantanti e i presentatori e le vallette che parteciperanno a Sanremo. Anche perché il problema non è il drogarsi prima di Sanremo, ma non drogarsi dopo averlo visto.

Detto questo, resta spettacolare l’ipocrisia con cui questo Paese seguita a nascondere la portata autentica del problema cocaina. Ci si ostina a dividere il mondo tra bianco e nero, buoni e cattivi, drogati e normali. Ci si scanna come se la droga riguardasse ancora e solamente spacciatori e devianti, mentre è un’industria che interviene secondo format di consumo ormai consolidati: ci si veste in un certo modo, si ha una certa auto, si appartiene a un certo ambiente e si hanno certe sostanze da consumare. Il modello di riferimento, purtroppo, non è Belen o un inarrivabile star system: il mercato degli stupefacenti ormai è in grado di incidere sulle scelte di vita, e i consumatori – persone che si credono informate – in virtù di questo imprinting si illudono di aver fatto una scelta. Antiproibizionismo o repressione non c’entrano più: potremmo buttarla su frasi a effetto e sentenziare, classicamente, che se eliminassimo tutti i cocainomani del Paese andrebbe sguarnita una buona fetta della classe dirigente e imprenditoriale e finanziaria, questo prima ancora che i palinsesti televisivi si svuotino.  Ma non è la verità. Il cocainomane interagisce con noi, è il chirurgo, il pilota, l’investitore dei nostri soldi, la maestra dei nostri figli, persino – si è scoperto di recente – il tranviere meneghino. A fermare tutto questo non basterà escludere Belen e non basterà purtroppo neppure la legge, o una diversa legge. C’è moltissimo da fare, ma la nostra classe politica e giornalistica ama esibire soltanto crociate, contrasti caricaturali, referendum morali, tesi sociologiche su uomini perdenti e derelitti.

Perché, era un perdente Lapo Elkann? E l’attore Paolo Calissano? E la modella Kate Moss? E Fiorello, che facciamo con Fiorello, che pure ha ammesso di esserci caduto e pure di brutto? Cacciamo tutti perché non diano il cattivo esempio? Ci raccontiamo che la droga è il famoso spazzino dell’umanità che ammalia i perdenti? Certo, non mancano eserciti di menomati mentali che assumono droghe perché sono deboli e non ce la fanno, dunque la sera non reggono se stessi e hanno bisogno di stemperare la realtà, stordirsi in una devianza da discoteca. Ma il dramma vero è la straordinaria compatibilità della cocaina col nostro modello di sviluppo: chi pippa non ha una doppia vita, ha una vita sola e intera che la cocaina accelera e concentra, chi la prende non vuole fuggire la realtà ma abbracciarla, lavorare come un pazzo, socializzare come mai riuscirebbe, essere brillante nonostante la stanchezza. La cocaina è la droga di chi ufficialmente non ne ha bisogno, di chi racconta la gestirà senza problemi. Una sola è la regola non scritta: ciascuno è artefice del proprio destino, se lo beccano cazzi suoi.

Basterebbe avere il coraggio di dire questo: la droga piace, la gente la prende da millenni proprio per questo. Ma ha un difetto, uno solo: che non riguarda la moralità o il moralismo di certi maestrini all’italiana. E’ un altro, il difetto.

La cocaina era nella Coca Cola sino al 1901 ed era reclamizzata proprio per questo, la prendevano i gesuiti in America Latina, la prendevano Pio X e Leone XIII e così pure gli Zar delle Russie, i principi del Galles, i sovrani di Svezia e di Norvegia, Thomas Alva Edison, i fratelli Lumière, persino Sigmund Freud che scrisse L’interpretazione dei sogni assumendo cinque grammi al giorno; non parliamo della cocaina elargita agli eserciti canadese e tedesco, degli Anni settanta quando la cocaina era celebrata sul New York Times (pur proibita) e quando a sostenere la liberalizzazione della cocaina e della marjuana non era Bob Marley, ma una lobby in cui primeggiava la Fondazione Ford. Nella classificazione statunitense delle droghe pericolose, datata 1971, la cocaina neppure c’era: è lo stesso anno in cui Peter Burne, lo psichiatra incaricato di dirigere il programma statale per la lotta alla droga, fu visto sniffare pubblicamente a una festa ufficiale con seicento invitati: che cosa è cambiato?

Sono cambiati il progresso scientifico, gli studi, le verità non sommarie che andrebbero pacatamente spiegate anziché mascherarle da predica generica, è cambiato ciò che ha trasformato la nocività di certe droghe in una sentenza della scienza medica: andrebbe spiegato questo, altro che generici predicozzi contro una valletta. E’ questo l’unico e terribile difetto della cocaina: fa male, fa molto male, e su questo andrebbe fatta informazione seria e una politica seria. Nella scarsa credibilità dei pedagoghi nostrani, poco scientifici e molto apocalittici, sguazzano intanto le Belen e gli assuntori finto-occasionali, quelli che in tutte le discoteche e cessi d’Italia si raccontano che sono tutte balle, non è vero niente, la cocaina farà anche male e però insomma, sai com’è. E mentre gli specialisti e gli esperti e i medici si fanno un mazzo così, in televisione a parlare del problema invitano la modella deficiente, il giornalista reazionario contro quello capellone, la solita poltiglia inutile. Se Belen ha assunto cocaina mica si parla della cocaina: si parla di Belen.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera