Spatuzza è attendibile

C’è la politica, c’è la magistratura, ci sono i pentiti e al di sopra c’è la legge. La politica fa la legge, la magistratura la applica e i pentiti ne sono regolati. Fine del caso Spatuzza, con l’aggiunta di un particolare: se Gaspare Spatuzza non è stato ammesso al programma di protezione la colpa non è della politica, non è della legge, paradossalmente non è neppure di Spatuzza: le responsabilità ricadono sulle procure di Palermo e Caltanissetta e Firenze, dalle quali a tutt’oggi si attendono delle risposte.

Da capo. La legge sui pentiti fu votata il 13 febbraio 2001 con i voti e il plauso di buona parte dell’opposizione di sinistra (13 febbraio 2001) e si stabilì che il collaboratore di giustizia abbia tempo sei mesi al massimo per dire tutto quello che sa, dunque che avrà accesso ai benefici di legge dopo che le sue dichiarazioni siano state verificate come nuove e rilevanti.
Spatuzza ha sforato? Sì, perché una parte delle sue deposizioni – si badi, solo una parte – è giunta oltre i 180 giorni previsti: si tratta delle deposizioni che riguardano Dell’Utri e Berlusconi, com’è noto. Significa che entro un paio di mesi perderà l’assegno oltreché l’assistenza medica e i soldi per l’affitto della sua famiglia, misure che gli erano state provvisoriamente concesse. Lui comunque rimarrà in carcere e sarà protetto a discrezione del Viminale. Le sue dichiarazioni – tutte, anche quelle fuori tempo massimo – resteranno tuttavia valide in sede giudiziaria perché ciò ha stabilito da tempo la Corte di Cassazione, a dispetto della citata legge.

Tutto questo è cristallino, solare, e in sé basterebbe a soppesare la serietà di chi ieri ha sostenuto che l’esclusione di Spatuzza «non ha nessun fondamento tecnico-legislativo» (ben nove senatori del Pd lo hanno sostenuto) e addirittura che «è una vendetta politica» (Donadi, Italia dei valori). Il sottosegretario Mantovano comunque riferirà all’Antimafia. Chi di dovere, se lo riterrà, potrà presentare un bel ricorso amministrativo.

Detto questo, Gaspare Spatuzza è un collaboratore di giustizia che non solo appare pienamente attendibile, ma per buona parte lo è di sicuro. Ma non lo è per via di improbabili «pentimenti» maturati dopo quindici anni di carcere duro (41 bis) e tantomeno a margine di ravvedimenti religiosi a opera di chi, come lui, trucidò anche Don Pino Puglisi. Lo è, attendibile, perché a partire dall’estate 2008,  e rispettando pienamente i 180 giorni previsti dalla legge:
1) ha confessato plurimi omicidi dei quali era accusato;
2) ne ha rivelati altri dei quali non lo accusava nessuno;
3) soprattutto si è autoaccusato – fornendo le prove – d’aver preso parte alla strage di via D’Amelio e specificamente d’aver rubato l’auto che poi fu imbottita del tritolo e che massacrò Paolo Borsellino. Lui, non quell’improbabile Vincenzo Scarantino – un drogato semianalfabeta – che fu invece individuato dai magistrati.

In altre parole, Spatuzza ha sbugiardato tre processi nei tre rispettivi gradi di giudizio (comprensivi perciò di false accuse, falsi pentiti, falsi colpevoli) senza che nessun giornale abbia mai mosso critica alle rispettive procure e ai numerosi magistrati coinvolti, gente che in pratica è andata a farfalle per quindici anni. Da qui la domanda «inquietante», come direbbero i mafiologi: perché il programma di protezione per Spatuzza, che aveva pienamente rispettato i termini di legge e detto cose importantissime, non fu chiesto allora e per tempo? Perché le procure di Firenze e Palermo e Caltanissetta non mossero un dito a suo beneficio?

Tutto il resto viene dopo, e coincide con la «scoperta» di Spatuzza da parte di giornali e televisioni. Ma non perché avesse contribuito a riscrivere la verità sulla strage di via D’Amelio, ma perché il pentito poteva tornar utile, forse, ad alimentare la sconfinata nebulosa della «trattativa» tra Stato e mafia. E’ qui, fuori tempo massimo – cioè ben oltre i 180 giorni previsti dalla legge – che Gaspare Spatuzza incontra evidentemente il favore degli inquirenti e pronuncia, sollecitato, il nome di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi: ma non li pronuncia mai spontaneamente, e soprattutto, per la prima volta, non dice nulla di riscontrabile. Ma fa niente: ecco che, miracolo, fuori tempo massimo, le procure di Firenze e Palermo e Caltanissetta si decidono a chiedere il regime di protezione. Ora sì. Peccato che i termini frattanto erano scaduti. Siamo alla fine dell’anno scorso, quando Gaspare Spatuzza – ricorderete – fu poi mandato in fretta e furia al processo Dell’Utri a farsi ridicolizzare dai fratelli Graviano, uscendone con le ossa rotte davanti alle tv di tutto il mondo. Questa è la sua storia.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera