Si può ancora competere per il voto in Lombardia?

Palazzo Lombardia, foto di Emanuela Marchiafava

Questi sono i giorni dell’insediamento di Roberto Maroni alla presidenza della Regione Lombardia, e del consiglio regionale, ottanta consiglieri per dieci milioni di abitanti, quasi uno stato. Questi sono i giorni in cui riassumere come si è giunti a questo risultato, perché l’insediamento del consiglio regionale sia una partenza per tutti, anche se, dalle prime decisioni, non pare si sia invertita la rotta. Moltissimi dei potenti direttori generali dei settori di Regione Lombardia che sono stati nominati qualche giorno fa, sono stati in realtà riconfermati nel ruolo, pur nella rotazione degli incarichi e sono quindi ancora una volta riconducibili o appartenenti all’area CL (Comunione e Liberazione).

Prima delle elezioni, tra gli elettori lombardi di centrosinistra si sentiva spesso esclamare: «Se vincono ancora loro, c’è da espatriare». Loro hanno vinto e della minaccia di un esodo di massa si sono già scordati in tanti. Per fortuna, perché l’attitudine alla fuga non è mai un pregio in politica. Il cambiamento, piuttosto. Quello che non si è avuto, qui in Lombardia, dove l’andamento del voto è stato meno elastico che nel resto d’Italia.

Eppure, l’avvento di Pisapia a Milano nel maggio 2011 aveva segnato una prima vittoria del centrosinistra, seguita nel 2012 da quella di Monza. Poi, le inchieste della magistratura che avevano coinvolto molti esponenti del centrodestra lombardo, uno su tutti il Presidente Formigoni, e la collegata crisi politica interna alla maggioranza del Pirellone avevano portato alle elezioni regionali anticipate.

Sembrava possibile un ribaltamento degli storici rapporti di forza, che invece non c’è stato: la coalizione guidata da Berlusconi ha ottenuto poco più di due milioni di voti, il 35,7 per cento dei validi totali. Nel 2008 erano invece la maggioranza assoluta con oltre 3,3 milioni di voti, con una perdita netta nominale di 1,3 milioni di voti. Di questi solo 200.000 ascrivibili al calo regionale dell’affluenza. Pdl e Lega hanno perso circa il 43 per cento e il 45 per cento dei voti di cinque anni fa.

Maroni ha raccolto 300.000 voti in meno rispetto a Formigoni nel 2010, e allora i votanti furono un milione di meno. La flessione sfiora i quindici punti percentuali. Ambrosoli – il candidato del centro sinistra, figura esterna al partito – ha sfiorato il 40 per cento ed è riuscito a catturare oltre mezzo milione di voti in più rispetto a Bersani e addirittura 200.000 in più di Veltroni nel 2008.
In Regione Lombardia Pdl e Lega hanno vinto pur perdendo una quantità impressionante di voti.
A livello nazionale, invece, il centro sinistra è riuscito nell’impresa opposta: perdere, vincendo, le elezioni politiche.

Ma questa emorragia di voti bipartisan verso chi si è diretta? È forse il Movimento 5 stelle a trionfare in Lombardia? Non si direbbe, perché per quanto riguarda il voto nazionale, il M5S ha registrato il risultato percentuale più basso fra tutte le regioni italiane (a eccezione del Trentino-Alto Adige e della Val d’Aosta) attestandosi sul 20 per cento dei voti, 6 punti percentuali in meno rispetto alla media nazionale. Molti hanno imputato questa differenza al ruolo di “regione in bilico” giocato dalla Lombardia per il risultato al Senato, che potrebbe avere indotto i potenziali elettori a scegliere il “voto utile”, confermandolo poi anche alla Camera.
Per quanto riguarda invece le elezioni regionali (che prevedono l’attribuzione al vincitore di un premio che garantisce la maggioranza assoluta dei seggi in consiglio regionale) il M5S ha preso 6 punti percentuali in meno rispetto alla Camera, perdendo quasi un terzo dei voti.

Dove sono finiti, allora, tutti questi voti? Principalmente nell’astensionismo. Il M5S riceve voti dai bacini elettorali dei Partito Democratico e della Lega e cattura voti di protesta da tutto il fronte ideologico, anche di estrema destra, come Forza Nuova, ma meno da quello del PDL che invece si rifugia in misura maggiore nell’astensionismo, perché è un elettorato più tranquillo e moderato, meno irritato e irritabile dagli scandali, su cui quindi l’appello del movimento ha avuto meno presa.

Alcuni di questi punti sono stati evidenziati dallo studio condotto dal Cise (Centro italiano studi elettorali) della Luiss che ha analizzato in dettaglio i risultati elettorali di tre capoluoghi di provincia lombardi: Pavia, Monza e Varese, evidenziando ad esempio la crisi del Popolo della Libertà che ha perso, nelle tre realtà analizzate, 15 punti percentuali.

C’è chi potrebbe rallegrarsi per la tenuta del voto lombardo contro il ciclone grillino, ma non è il nostro caso, perché questa rigidità certifica quanto il voto lombardo sia refrattario al cambiamento, da entrambe le parti. Paradossalmente, la Lega non è mai stata così debole eppure mantiene, o si prende, le tre maggiori regioni del nord (Piemonte, Veneto e ora la Lombardia). Paradossalmente, la sinistra s’incaponisce a non imparare dai suoi errori: sceglie sì un eccellente candidato – Ambrosoli – ma una figura esterna al partito, dimostrando così di non aver approfittato degli ultimi anni per selezionare al suo interno i front-runner. E lo fa posticipando la scelta praticamente all’ultimo momento utile, quando invece si è visto con Pisapia quanto paghi una campagna ben pianificata, fatta maturare nel tempo. Paradossalmente, se gli analisti hanno ragione nel sostenere che questo risultato elettorale non è il sintomo di un voto in prestito ma costituisce una rivoluzione vera, allora la Lombardia potrebbe da oggi essere considerata una regione competitiva. E la prospettiva probabile di nuove elezioni politiche congiunta a quella, certa, di un’importante tornata amministrativa nella primavera del 2014, non concede molto tempo per vedere se il centrodestra saprà riconquistare il consenso perduto o se invece si è all’inizio di un riequilibrio elettorale.

Questo sarebbe proprio il momento di gettarsi fin nell’ignoto, rispetto agli orizzonti consueti del PD che, in maniera sintomatica, quando il sistema prevede le preferenze elegge solo due donne su diciassette consiglieri regionali. Di gettarsi nell’ignoto, quindi, alla ricerca di nuovi paradigmi, scegliendo di battersi, più che per una causa, per un effetto. Sempre, non fosse altro perché una causa difende lo status quo, mentre un effetto aggrega.

Per cercare di quantificare e qualificare questa competitività dello scenario lombardo, è opportuno collegare i tre fattori: l’astensionismo, il meccanismo del “voto utile” e il risultato M5S inferiore alla media nazionale, senza però dimenticare anche il quarto, ossia la differenza considerevole del risultato elettorale registrato nelle città capoluogo di provincia rispetto a quello nei territori. Nelle prime, infatti, ha prevalso il voto al centrosinistra, nei secondi al centrodestra. In casi come questi, scatta in maniera quasi automatica da parte della maggioranza dei commentatori politici, il ricorso alla categoria del “voto d’opinione” che la tradizione vuole risieda in città e mai in campagna. Il riequilibrio, invece, passa proprio attraverso la demolizione di questa concezione datata del voto d’opinione, perché tutti hanno un’opinione, piuttosto sono pochi coloro che accettano di cambiarla sulla base delle informazioni che ricevono. Anzi, molti cercano o ascoltano solo quelle che la rafforzano.

Quando si afferma che in Lombardia non si vince se non si vince nei territori (e il dato elettorale lo conferma) bisogna partire proprio da qui, dall’elasticità delle opinioni dell’elettorato. E dal legame che unisce gli elettori ai partiti nei piccoli comuni che passa inesorabilmente dal rapporto quotidiano con gli amministratori locali. Chi vive in un piccolo comune ha infatti una conoscenza molto spesso personale dei rappresentanti politici locali, che lo porta o a identificare il partito coi politici locali, oppure a considerarli la fonte più autorevole da cui farsi orientare (perché visti come interni al sistema e quindi depositari di informazioni dirette). Se a questo aggiungiamo che i cittadini perdonano di più agli amministratori di un piccolo comune, molto meno o per nulla a quelli di una grande città, il gioco è fatto.

Contrariamente a quello che l’immaginario collettivo pensa, la Lombardia è una regione fortemente agricola, dove molti, ampi e variegati sono gli ambiti a vocazione rurale, strutturati in piccoli comuni. Se si vuole erodere il consenso al centro destra la competitività deve tornare ad abitare questi spazi rurali, non solo il web; non occorre espatriare, ma tornare in campagna.

(Scritto per imille.org)

Emanuela Marchiafava

Media Analyst e consulente per le imprese, già assessore della Provincia di Pavia, si occupa di turismo, politica e diritti.