Quanti morti volete a Ferragosto?

Come in molti hanno scritto in questi giorni, quella delle ong e dei migranti non è una questione molto complicata. Si può riassumere in una semplice domanda: quanti morti siete disposti a tollerare per ottenere ciò che desiderate?

In questo caso, quello che desiderate potrebbe essere frontiere più sicure. Oppure meno stranieri intorno alla stazione dei treni. O ancora: la chiusura del centro per richiedenti asilo vicino a casa vostra. Sono tutte richieste legittime, che è giusto che siano tenute in considerazioni dai politici. Quello che però di solito si cerca di tenere nascosto è il prezzo che bisogna pagare per soddisfare queste richieste. Un prezzo che si paga in vite umane.

Facciamo un esempio recente: il codice delle ong, approvato da governo e Unione Europea e firmato da quattro delle dieci ong che operano a largo della Libia. Tra le disposizione del codice ce ne è una che vieta alle imbarcazione delle ong di trasbordare i migranti su altre navi, salvo ricevere il permesso dalla Guardia costiera. Questa regola, costringe – in teoria – le imbarcazioni delle ong a trascorrere molto tempo in viaggio tra le coste libiche e quelle italiane. In questo modo, trascorrono meno tempo a largo della Libia, raccolgono meno persone e, in ultima analisi, ne portano meno in Italia.

In questo momento non mi interessa valutare quale sia la vera ragione dietro il codice. Se quella ufficiale, aiutare i magistrati italiani a svolgere indagini sui trafficanti, o quella implicita, ridurre la quantità di migranti che arrivano in Italia. Quel che mi interessa è la naturale conseguenze dell’applicazione letterale del regolamento. Meno navi nelle aree di soccorso e per meno tempo. E quindi, più migranti affogati.

Nessuno, ovviamente, sosterebbe che aiutare i magistrati di Catania o Trapani a fare indagini migliori vale la morte di qualche centinaio di persone. Chi sostiene maggiori regolamentazioni nei confronti delle ong di solito sostiene anche che sono loro stesse a causare i morti. Agendo da “pull factor”, cioè da fattore di attrazione, le ong spingerebbero molte più persone a prendere il mare e, quindi, moltiplicherebbero il numero dei morti. Si tratta però di un’affermazione che non considera la realtà della situazione sul campo.

Immaginiamo per un attimo che le ong vengano costrette ad abbandonare la loro missione di soccorso e che la traversata del Canale diventi nel giro di pochi giorni un’impresa impossibile. Le partenze cesserebbero immediatamente? Sembra molto difficile. Le decine di migliaia di migranti che già oggi si trovano in Libia spesso non hanno modo di sapere cosa succede in mare. Sono confusi e spaventati, si trovano in un paese ostile, in balia di trafficanti e organizzazioni criminali. Se qualcuno ordinasse loro di salire su un gommone, probabilmente non opporrebbero resistenza: non importa quanto è rischiosa la traversata. Dopo tutto, hanno già viaggiato per mesi, hanno trascorso mesi o settimane in campi improvvisati e pagato migliaia di euro, raccogliendo i risparmi delle loro famiglie e spesso quelli dell’intero villaggio.

Gran parte di quelli che hanno già deciso di partire, quindi, partiranno. E moltissimi di loro moriranno. Con il tempo, la notizia che la rotta verso l’Italia è divenuta una trappola mortale risalirà la rotta dei migranti fino ai loro paesi di origine. Le storie di ragazzi inghiottiti dal mare inizieranno a superare quelle di coloro che ce l’hanno fatta. Qualcuno che prima pensava di partire ripenserà alla sua decisione o tenterà una nuova rotta.

Eliminando ogni “pull factor”, trasformando il Mediterraneo in una barriera mortale e insormontabile, probabilmente riusciremo a ridurre il flusso dei migranti, forse a chiuderlo del tutto. Il problema, però, è in quanto tempo. Mesi? Anni? E nel frattempo, quanto persone continueranno a morire in mare, nel deserto o nei campi libici? È un conto difficile da fare, ma stiamo parlando probabilmente di migliaia, se non di decine di migliaia di vite.

A nessuno piace parlare di immigrazione in questi termini. Nessuno direbbe mai “in cambio della chiusura di questo centro di accoglienza sono disposto ad accettare mille morti in mare”. Eppure, se vogliamo parlare di immigrazione senza nasconderci dietro un dito, questa è la brutale aritmetica con cui dobbiamo avere a che fare. Non sempre la risposta di fronte a questi calcoli è la più cinica che possiamo immaginare.

Quando nell’ottobre del 2013 un barcone affondò a largo di Lampedusa causando quasi 400 morti, la risposta italiana fu nobile e ispirata. La tragedia era stata troppo vicina e troppo grande per liquidarla con una scrollata di spalle. Dopo il disastro, per quasi un anno il governo tenne in piedi l’operazione Mare Nostrum, durante la quale il ruolo che oggi è delle ong venne svolto da navi della marina militare italiana. Nei mesi successivi, però, iniziarono a sentirsi critiche sempre più forti, l’appoggio del governo si fece più incerto e, dopo un anno, l’operazione venne sospesa.

Il senatore del PD Stefano Esposito stava cercando di dire proprio questo quando ha ricordato che le ong possono occuparsi soltanto di salvare vite umane, mentre il governo non può permetterselo. Il governo è costretto a fare anche altre considerazioni. Deve tenere conto che ci sono persone che sono disposte ad accettare dieci, cento, mille morti pur di non leggere la notizia dell’ennesimo sbarco a Lampedusa.

Ma per quanto scomoda, è una valutazione che non sono costretti a fare soltanto Esposito e i suoi colleghi che siedono al governo. Possiamo cercare di ignorarla, ma è una domanda che riguarda ciascuno di noi. Quanti morti siamo disposti ad accettare prima di rovinarci il Ferragosto?

Davide De Luca

Giornalista. Ho scritto per l’Arena di Verona e per l’Agence Europe di Bruxelles. Ho collaborato ad alcuni libri d’inchiesta su CL e la finanza cattolica. Mi piacciono i numeri e l’economia e cerco di spiegarli in modo semplice. Su Twitter sono @DM_Deluca