Regola 4: I problemi di comunicazione

Nel 2012 uscì una breve e preziosa guida alla politica italiana dal titolo: “Manuale del giovane turco, come scalare la politica italiana senza essere miliardari”. L’autore, Francesco Cundari, è un giornalista dell’Unità e oggi direttore del sito LeftWing. La “regola non scritta numero 4” del manuale recita: “I problemi di comunicazione non sono mai problemi di comunicazione”. Significa che imputare il calo di consensi di un politico alla difficoltà di diffonderne efficacemente il messaggio è nella maggior parte dei casi un comodo alibi. Il problema, di solito, è che quello che manca è il messaggio.

È un pensiero che emerge anche dalle pagine di “Disinformazia, la comunicazione al tempo dei social media”, pubblicato da Marsilio e scritto da Francesco Nicodemo, consulente chiamato nel 2013 a come responsabile comunicazione del PD, coordinatore della comunicazione del PD durante la vittoriosa campagna elettorale per le elezioni europee del 2014, e poi consulente del governo per la comunicazione. Nel suo libro, Nicodemo fa una lunga e documentata analisi dell’attuale stato degli studi sulla comunicazione, in particolare nel suo rapporto con i nuovi media. La prima parte è scritta con lo stile accademico e il rigore di un articolo scientifico. È forse la più ostica dell’intero scritto, ma contiene informazioni e teorie che saranno fondamentali a Nicodemo per sostenere la sua tesi nella parte finale.

È importante chiarire subito, infatti, che non siamo davanti a un libro di polemica politica. Nelle prime duecento pagine, Nicodemo concentra una robusta sezione analitica mentre – come si dovrebbe fare nei libri che parlano di politica – relega la sua esperienza personale alle ultime pagine. Da qui, l’autore trae lo spunto per formulare la sua tesi: secondo Nicodemo, una buona comunicazione politica non può che essere legata a un messaggio forte. «La comunicazione non è sussidiaria, ma è politica, nel senso che è profondamente legata ai contenuti e alle azioni della politica». Ma, nell’epoca dei social network, il messaggio politico non può prescindere dal mezzo che lo diffonde. La comunicazione politica deve considerarne le necessità e a volte il pensiero deve essere piegato alle sue esigenze. Al tempo di Twitter e Facebook non va più bene la monolitica dottrina erede delle grandi tradizioni del Novecento, pensata per una società più semplice dove gli interessi erano più uniformi e facili da rappresentare. Il politico deve invece riuscire ad adattare il suo pensiero alle nicchie che si sono formate nella società e che grazie ai social network è possibile raggiungere e rappresentare.

Arrivato a questo punto, Nicodemo rivendica una maggiore autonomia e coinvolgimento nei processi decisionali degli autori della comunicazione politica. I social network, argomenta, non sono più solo un canale unidirezionale, attraverso il quale riversare il proprio pensiero sugli elettori. Tramite i social network è possibile non solo trasmettere, ma anche raccogliere gli umori, le impressioni, le idee del proprio elettorato. È questa la vera rivoluzione a cui ci ha messo di fronte l’innovazione tecnologica.

La conseguenza più logica di questo fenomeno è che chi questi umori sonda e, in un certo grado, manipola, cioè gli autori della comunicazione politica, in particolare via web, dovrebbe avere un ruolo maggiore anche sulle decisioni politiche che poi dovrà comunicare, perché lui meglio di molti altri conosce e può interpretare gli umori di una parte importante dell’elettorato. Nicodemo si spinge a immaginare un nuovo tipo di partito, connesso e in grado di rappresentare gli elettori ad un nuovo livello che prima non era possibile: «Il partito nuovo come motore di connessione e decifrazione dei dati, quindi, che interpreti i flussi di informazioni».

I pericoli che riserva questo cammino però, sono evidenti. Da medico della società, il partito rischia di trasformarsi nel termometro dei suoi umori, non più in grado di imporre una visione, ma in grado soltanto di rappresentarne imperfettamente la miriade di interessi in cui si è scomposta. Si tratta di una questione che si ripropone ciclicamente sin all’alba del secolo scorso. Fin da quando, cioè, il suffragio universale e la stampa portarono per la prima volta le opinioni e i discorsi dei politici all’interesse dell’intera collettività e, loro, per la prima volta, furono costretti a misurarsi con i volubili interessi dell’opinione pubblica. «L’età della democratizzazione si trasformò così nell’era dell’ipocrisia politica», ha scritto lo storico Eric J. Hobsbawm.

I nuovi media e i social network, dice Nicodemo, hanno in parte l’effetto che secondo Hobsbwan ebbero i primi mezzi di comunicazione di massa e il suffragio universale: costringere i politici a un perpetuo inseguimento di una sfuggente volontà popolare. La sua visione, però, non è negativa come quella di Hobsbawm. Non è un cinico e non sostiene l’utilità di giocare sporco, utilizzando fake news, troll e il tipo di comunicazione ultra-aggressiva che abbiamo visto ultimamente. Anzi, sostiene la necessità di un pensiero politico forte, fondato su una visione positiva e ispirante della società. È il messaggio che veicola questa idea che deve essere flessibile, capace di adattarsi alle reazioni della rete – che sono poi, di riflesso, quelle dell’elettorato più in grande.

Nicodemo fa un esempio di questo modo di procedere nel parte finale del libro, quella certamente più interessante, in cui racconta – in poche pagine – la sua esperienza durante la campagna per le Europee del 2014. Nel 2013, Nicodemo fu chiamato dal nuovo segretario Renzi a riorganizzare l’area digitale del partito. Secondo molti, la gestione precedente non aveva brillato in maniera particolare e, soprattutto durante la campagna del 2013 conclusasi con il deludente risultato di Bersani, aveva spesso subito l’iniziativa degli avversari.

Nicodemo racconta come organizzò quella che da allora si chiama PD Community.

Lo schema organizzativo della Pd community prevedeva una struttura a rete di stanze digitali, fortemente interconnesse tra di loro. La stanza nazionale, chiamata anche «What Room», era il centro del sistema, dove si decideva come diffondere quotidianamente i contenuti del Pd, spesso difendendosi dagli attacchi dei competitor, ed era composta da circa duecento membri: i responsabili della comunicazione (nazionale, regionali e provinciali), i componenti della redazione del sito web del partito, i social media manager dei gruppi parlamentari alla Camera, al Senato e in Europa, i parlamentari e gli amministratori locali che avevano intuito le potenzialità del progetto, e infine attivisti e blogger di area democratica particolarmente influenti sulla rete. Lo schema organizzativo prevedeva che alla stanza nazionale fossero connesse venti stanze regionali, a cui erano collegate centootto stanze provinciali: ognuna di queste replicava anche nella composizione il modello della stanza nazionale.

Questa strategia venne messo alla prova per la prima volta durante la campagna elettorale per le elezioni Europee del 2014, con buoni risultati, scrive Nicodemo.

In questo schema è evidente che i circoli non solo diventavano i terminali della propaganda del partito, ma, decifrando i segnali locali come antenne sul territorio, arricchivano e miglioravano la stessa comunicazione nazionale.

La campagna risultò effettivamente vincente. Come ammette Nicodemo, due anni dopo, nei mesi che precedettero il referendum costituzionale, il clima politico era molto cambiato. Ugualmente però, la campagna per il “Sì” risultò molto più spenta, più verticale ed eterodiretta, meno spontanea e, in ultima analisi, meno vincente.

Alla fine, credo che del libro di Nicodemo e delle sue stesi si possano dare due letture differenti. Una più radicale, secondo la quale i mutamenti tecnici e sociali degli ultimi anni hanno definitivamente messo fine alla lunga storia dei partiti tradizionali. I loro eredi saranno più simili alle moderne società di analisi dei dati. Dallo studio della rete cercheranno di comporre gli umori e i sentimenti dello spettro più largo possibile di elettorato, riunendoli attorno al messaggio politico più sintetico e condivisibile possibile.

Oppure, gli si può dare un’interpretazione più meramente tecnica. Ossia che la rivoluzione nelle comunicazioni non è poi tanto diversa dalle rivoluzioni che abbiamo già vissuto in passato. Non è vero, come pensava Hobsbwan che i politici iniziarono ad essere ipocriti soltanto dopo l’arrivo dei primi giornali. Machiavelli ci insegna che mentivano già cinque secoli prima. Ma certo lo facevano in maniera diversa, rivolgendosi a un pubblico diverso e utilizzando diversi mezzi di comunicazione. Come l’avvento della televisione ha costretto i politici a imparare a stare davanti alle telecamere, così i nuovi mezzi di comunicazione di massa impongono al politico una lunga lista di nuove competenze tecniche, che deve conoscere e alle cui esigenze deve essere disposto ad adattare il suo messaggio. Queste competenze devono essere studiate, spesso con l’aiuto degli esperti della materia. Il carisma personale del leader o la forza del messaggio non sono sufficienti a trionfare oggi, come non lo sono stati in nessuna epoca. Anzi, si potrebbe argomentare che mano a mano che cresceva la complessità della società, più aumentava la necessità di affidarsi a competenze specialistiche.

Alla fine però, se dal leader a volte si può prescindere, l’assenza di un pensiero politico è sempre fatale. Come sostiene Nicodemo, e come ricorda il “Manuale del giovane turco”, i problemi di comunicazione sono sempre problemi politici.

Davide De Luca

Giornalista. Ho scritto per l’Arena di Verona e per l’Agence Europe di Bruxelles. Ho collaborato ad alcuni libri d’inchiesta su CL e la finanza cattolica. Mi piacciono i numeri e l’economia e cerco di spiegarli in modo semplice. Su Twitter sono @DM_Deluca