Erdogan sta perdendo la guerra con i curdi?

La guerra ai curdi del presidente turco Erdogan sta andando male. Un mese di attacchi aerei non ha intaccato le capacità militari del PKK, la milizia curda che combatte per una maggiore autonomia e ieri nuovi attacchi hanno colpito i militari turchi nel sud del paese e altri attentati sono avvenuti ad Istanbul, nel cuore della Turchia. Intanto la lira turca continua a perdere valore e gli alleati americani non sembrano essere molto soddisfatti di come si sta evolvendo la situazione. Ma la cosa peggiore per il presidente Erdogan è che i sondaggi stanno andando malissimo e le elezioni anticipate sono oramai a poche settimane di distanza.

In questo dispaccio avevo raccontato le cause principali di questa crisi. In breve: nel 2013 il governo turco e il PKK hanno firmato un cessate il fuoco, ma non sono riusciti a implementare gli accordi di pace. La situazione in Siria, dove la Turchia ha fatto di tutto per ostacolare l’YPG, la milizia formata dai curdi siriani legata a doppio filo con il PKK, ha peggiorato ulteriormente il clima tra le parti e i curdi hanno più volte accusato i servizi segreti turchi di appoggiare l’ISIS. Lo scorso 20 luglio l’ISIS ha attaccato un raduno di giovani attivisti curdi uccidendo decine di persone e in risposta il PKK ha ucciso due poliziotti turchi. Per rappresaglia, il governo turco ha iniziato la campagna di attacchi aerei ancora in corso in questi giorni.

Secondo molti analisti, dietro la decisione turca di estendere il conflitto contro il PKK ci sono essenzialmente ragioni di politica interna. Alle elezioni dello scorso giugno il partito del presidente Erdogan non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti per la prima volta in un quindicennio. Si è trattato di una grave sconfitta per Erdogan che sperava di ottenere una maggioranza di due terzi dei seggi con cui cambiare la costituzione e trasformare il paese in una repubblica presidenziale. Attualmente Erdogan si trova bloccato nel ruolo di presidente della Repubblica: ha un fortissimo ascendente sul suo partito, il che gli permette di fatto di “governare”, ma i suoi poteri effettivi sono soprattutto simbolici.

(Piccola parentesi: diversi leader dell’opposizione e analisti internazionali hanno lasciato intendere che negli ultimi anni la salute mentale di Erdogan è andata peggiorando. Alcuni lo accusano esplicitamente di megalomania e sostengono che il suo progetto di riforma costituzionale non è altro che il tentativo di trasformare la Turchia in un regime autoritario. Di sicuro Erdogan ha progetti molto ambiziosi per sé stesso, come dimostra la costruzione del nuovo palazzo presidenziale: un edificio di circa 1.500 stanza e 200 mila metri quadrati di superficie).

Sconfitto alle elezioni, Erdogan ha sabotato i tentativi di formare un governo di coalizione nella speranza di vincere le elezioni anticipate che si terranno il primo novembre. Secondo molti commentatori, la guerra al PKK è una strategia per prendere voti al partito nazionalista turco MHP (in passato Erdogan si era presentato come la voce moderata della riconciliazione con i curdi perdendo molti voti alla sua destra). In Turchia, è importante ricordarlo, in molti ritengono il PKK una minaccia alla loro sicurezza superiore a quella rappresentata dall’ISIS. Rinfocolando il conflitto turco-curdo, Erdogan spera anche di sottrarre voti all’HDP, il partito curdo moderato che ha mediato la tregua tra PKK e governo turco. L’HDP alle ultime elezioni ha ottenuto un risultato storico anche grazie ai voti di molti turchi etnici che speravano così di danneggiare l’AKP di Erdogan.

Dopo un mese di bombardamenti e centinaia di attacchi aerei, non sembra che Erdogan sia riuscito a raggiungere nessuno dei suoi obbiettivi. La capacità e la volontà del PKK di colpire i militari turchi non sembrano essere diminuite e proprio ieri otto militari turchi sono morti nell’esplosione di una bomba nel sud-est del paese. Altri attacchi sono avvenuti nel cuore della Turchia, ad Istanbul. Nel frattempo, decine di città a e villaggi nelle aree a maggioranza curda del paese hanno proclamato la loro autonomia dal governo di Ankara e hanno formato cordoni umani per impedire l’ingresso delle forze di sicurezza turche.

Se militarmente la strategia non sembra funzionare, politicamente le cose vanno anche peggio. I voti dell’HDP sono in crescita e secondo due recenti sondaggi alle prossime elezioni i curdi potrebbero prendere tra il 12 e il 14 per cento dei voti. Nel frattempo l’AKP non sembra aver conquistato molti voti tra i nazionalisti e secondo i sondaggi è sceso dal 41 per cento ottenuto alle ultime elezioni a poco più del 39 per cento.

Come se non bastasse, Erdogan rischia anche di danneggiare l’alleanza del suo paese con gli Stati Uniti. Già oggi l’amministrazione americana è piuttosto tiepida nei confronti della campagna aerea contro il PKK. Il giorno dell’inizio degli attacchi l’unica dichiarazione a favore della Turchia arrivò da un funzionario semi-sconosciuto, l’ambasciatore americano presso la coalizione anti-ISIS. Da allora le espressioni di solidarietà si contano sulle dita di una mano e non sono mai andate oltre le formule rituali in cui si ribadisce il diritto all’autodifesa della Turchia – per fare un paragone basta vedere cosa disse la Casa Bianca delle operazioni israeliano contro Hamas un anno fa.

L’attuale priorità dell’amministrazione americana è la lotta all’ISIS e difficilmente bombardare il PKK rappresenta un contributo positivo a questa battaglia. Le operazioni turche rischiano di favorire indirettamente l’ISIS poiché colpiscono un alleato dell’YPG siriano che si è spesso dimostrato una delle forze più decise nella lotta allo Stato Islamico. Recentemente alcuni articoli del New York Times hanno raccontato quanto siano stretti i legami tra le due milizie: secondo Rukmini Callimachi “migliaia” di miliziani del PKK combattono attualmente in Siria affianco all’YPG. Nello stesso articolo, Callimachi evidenzia anche quanto sia stretta la collaborazione tra YPG e forze armata americane al punto che alcuni miliziani dell’YPG comunicano direttamente con l’aviazione americana per coordinare gli attacchi aerei contro l’ISIS.

Alcuni leader del PKK sostengono che l’YPG sta già facendo da tramite con gli Stati Uniti per organizzare dei negoziati e mettere fine alle ostilità di queste settimane. Per Erdogan questo rischia di trasformarsi nello scenario peggiore. Le prossime elezioni probabilmente non produrranno una maggioranza chiara e renderanno necessario un governo di coalizione. A quel punto Erdogan rischia di diventare l’unico ostacolo alla formazione di un nuovo governo, a una pace con i curdi, a un miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti e ad un aumento dell’impegno contro l’ISIS. In uno scenario del genere è facile immaginare come l’attuale presidente possa venire isolato dai suoi stessi compagni di partito e costretto a restare entro i limitati confini dei poteri che la costituzione gli concede, rinchiuso nel suo palazzo presidenziale da millecinquecento stanze.

Questo è il settimo “dispaccio” di una serie settimanale con cui cercherò di raccontare le guerre che stanno attraversando il mondo musulmano. Qui ho raccontato il progetto. Qui potete trovare gli altri dispacci.

Davide De Luca

Giornalista. Ho scritto per l’Arena di Verona e per l’Agence Europe di Bruxelles. Ho collaborato ad alcuni libri d’inchiesta su CL e la finanza cattolica. Mi piacciono i numeri e l’economia e cerco di spiegarli in modo semplice. Su Twitter sono @DM_Deluca