Che cosa succede a Gaza, in pratica

Da 23 giorni nella Striscia di Gaza l’esercito israeliano è impegnato in una serie di operazioni militari via aria e via terra contro Hamas, il gruppo politico militare che controlla la Striscia, e contro altre milizie palestinesi. Vediamo tutti i giorni le notizie degli attacchi aerei israeliani, del tragico numero dei morti palestinesi che continua ad aumentare e dei lanci di razzi contro Israele, ma è difficile leggendo soltanto i giornali o guardando soltanto la televisione capire che cosa in pratica sta accadendo sul campo. È importante sottolineare come le informazioni disponibili al momento siano molto frammentarie e molto spesso inficiate dalla propaganda. Israele rivela soltanto le informazioni che ritiene necessarie (anche se diversi suoi comandanti – a differenza di conflitti precedenti – si sono fatti intervistare) e permette ai giornalisti di entrare nelle zone di guerra soltanto in alcuni casi. D’altro canto, Hamas ha un atteggiamento molto duro nei confronti della stampa e negli ultimi giorni sono emerse diverse prove e accuse di minacce e censure. Per questo motivo cercherò di essere sempre molto cauto nelle mie affermazioni e attribuirò alle varie parti le informazioni che non possono essere verificate in maniera indipendente.

In fondo all’articolo ho anche inserito una risposta alle critiche che mi sono state rivolte per il mio precedente articolo.

Gli attacchi via aria
I massicci attacchi via aria contro la Striscia di Gaza sono cominciati lo scorso 8 luglio e da allora l’IDF sostiene di aver colpito più di 4 mila bersagli (non dice però quante sortite sono state compiute e quanti missili e bombe sono stati lanciati). Una delle poche cose chiare è che si tratta di una delle più grandi offensive aeree mai compiute da Israele su Gaza. Soltanto nei primi due giorni di attacchi l’aviazione ha sganciato più bombe che in tutti gli otto giorni dell’operazione Pilastro di difesa, nel novembre del 2012. Gran parte di questi attacchi viene compiuta da aerei da guerra F-16 che sganciano vari tipi di bombe. Una delle più usate è la bomba a guida laser da 250 libbre. Si tratta di un’arma guidata che viene indirizzata sul bersaglio tramite un puntatore laser e ha un margine di errore di circa 30 centimetri. Una bomba di questo tipo ha la capacità di distruggere completamente un’abitazione, ma di lasciare intatte le case dello stesso isolato (come potete vedere nel video qui sotto).

Israele ha ammesso di aver utilizzato anche un certo numero di bombe da una tonnellata, un tipo di arma in grado di radere al suolo un intero isolato in maniera indiscriminata (più avanti vedremo dove sembra che queste armi siano state utilizzate). Infine, l’aviazione israeliana utilizza anche elicotteri armati con missili Hellfire, un’arma con una testata esplosiva piuttosto ridotta (circa dieci chili) utilizzata per colpire obbiettivi molto piccoli (ad esempio un’auto in movimento o un singolo appartamento).

Ma cosa colpisce l’IDF dal cielo? Mettiamo da parte le operazioni di appoggio alle truppe di terra di cui ci occuperemo dopo. L’IDF sostiene di colpire i siti di lancio dei missili sparati contro Israele, i depositi e le fabbriche di armi, gli ingressi dei tunnel, le case dei miliziani e dei leader di Hamas e i singoli leader e miliziani quando ha l’occasione di colpirli allo scoperto. Tutti questi siti, sostiene l’IDF, si trovano spesso vicino a edifici civili, scuole e ospedali (l’ONU ha confermato che sono stati nascosti missili nelle sue scuole e che missili sono stati sparati da postazioni vicine agli edifici dell’ONU). Esistono prove inconfutabili che i miliziani palestinesi hanno nascosto alcune armi all’interno di scuole e altre abitazioni civili, così come esistono prove altrettanto inconfutabili che missili e colpi di mortaio sono stati sparati da scuole, ospedali e abitazioni civili. Quello che non si può dimostrare è che tutti gli attacchi aerei israeliani abbiano colpito case o edifici utilizzati come depositi o basi dai miliziani.

Infatti, secondo alcuni critici, in questi bombardamenti a volte l’aviazione israeliana prende esplicitamente di mira infrastrutture civili. Lo scopo di queste missioni sarebbe causare disagi e problemi sempre più gravi alla popolazione civile in modo da allontanarla da Hamas (una strategia che molti analisti sostengono che l’IDF abbia utilizzato in Libano, per allontanare la popolazione da Hezbollah). Tra gli obbiettivi colpiti in base a questa strategia ci sarebbe anche la centrale elettrica di Gaza, che è stata distrutta martedì. Il comandante dell’aviazione ha dichiarato che la centrale non è stata presa di mira esplicitamente e che si è trattato di un errore. Secondo alcuni testimoni, il serbatoio della centrale sarebbe stato colpito da alcuni carriarmati israeliani (il che renderebbe possibile l’ipotesi che si sia trattato di un errore: i cannoni dei carriarmati sono molto più imprecisi delle bombe guidate). Attualmente, Israele ed Egitto forniscono alla striscia 64MW di potenza elettrica, cioè il 18 per cento del fabbisogno della Striscia. Non è chiaro quanta energia fornisse la centrale distrutta, visto che funzionava soltanto per alcune ore al giorno, ma anche a pieno regime forniva circa un terzo dell’energia elettrica che tuttora continua ad arrivare da Israele. Indipendentemente da come si sia svolto l’episodio della centrale, è importante sottolineare che bombardare volontariamente le infrastrutture civili (anche cercando di risparmiare vite umane) e colpire la popolazione in base al principio della rappresaglia collettiva è vietato dalle leggi internazionali e può costituire un crimine di guerra.

L’offensiva via terra
Il 17 luglio l’esercito israeliano è entrato nella striscia di Gaza iniziando una massiccia operazione di terra che non si è ancora conclusa. Non è chiaro quanti uomini e quanti mezzi Israele stia impegnando, mentre sono state diffuse alcune informazioni su come l’esercito sta procedendo e su quali sono i suoi obbiettivi. Il governo israeliano ha dichiarato che l’obbiettivo principale dell’operazione terrestre è la distruzione dei tunnel che dalla Striscia di Gaza passano sotto il confine e sbucano in territorio israeliano (qui avevamo parlato in maniera molto approfondita della questione dei tunnel). A differenza dell’operazione Piombo Fuso, nel gennaio 2009, sembra che in queste settimane l’esercito israeliano non sia entrato in profondità nel territorio della Striscia, ma che si sia limitato ad occupare una fascia di tre chilometri lungo tutto il confine, la cosiddetta “buffer zone”. Si tratta di una fascia molto estesa che ammonta a circa il 40 per cento di tutta la superficie della Striscia: si calcola che circa 200 mila persone abbiano dovuto abbandonare le loro case in seguito all’occupazione della buffer zone. Nonostante questo, come potete vedere dalla cartina, la buffer zone non include le aree più densamente abitate della Striscia, tranne che in un paio di punti.

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Uno di questi potete vederlo nel riquadro: si tratta del sobborgo di Shejaiya, nella parte est di Gaza City. Si tratta della zona dove in questi giorni sono avvenuti i combattimenti più duri, come hanno ammesso gli stessi ufficiali israeliani. A Shejaiya è in corso una vera e propria battaglia. Shejaiya è una zona densamente abitata e urbanizzata che, prima dell’inizio delle operazioni, era abitata da circa 92 mila persone. Prima dell’attacco, tra il 18 e il 20 luglio, gli abitanti della zona sono stati avvertiti tramite telefonate e il lancio di volantini dell’imminente inizio del combattimenti. A mezzanotte del 20 luglio l’esercito israeliano ha attaccato il quartiere e ha incontrato una resistenza particolarmente tenace (alcuni ufficiali israeliani hanno sottolineato che la resistenza probabilmente si era organizzata perché Hamas sapeva dove le truppe israeliane stavano per attaccare).

Il primo scontro è durato circa sette ore durante le quali l’esercito israeliano ha perso 56 soldati tra morti e feriti. I miliziani hanno utilizzato missili anticarro, danneggiando o distruggendo diversi carriarmati e mezzi per il trasporto truppe. Negli scontri è rimasto ferito anche il comandante della brigata Golani, uno dei reparti più prestigiosi dell’esercito israeliano (curiosamente, si tratta di un arabo druso). Lo scontro è stato così intenso che alle truppe israeliane è stato ordinato di rientrare nei loro mezzi di trasporto corazzati e, per la prima volta dall’inizio dell’operazione, l’artiglieria pesante è stata autorizzata a colpire un’area urbana. Secondo l’esercito israeliano in poche ore sono stati sparati circa 600 colpi di artiglieria e la situazione era così grave che i bombardamenti sono stati diretti fino a cento metri dalle posizioni israeliane, invece dei 250 normalmente ritenuti sicuri. Il giorno successivo l’aviazione ha dichiarato di aver sganciato cento bombe da una tonnellata sull’area. Successivamente i genieri israeliani hanno demolito molte altre costruzioni. Secondo i medici palestinesi, nei combattimenti sono morti tra le 60 e le 120 persone e più di 250 sono rimaste ferite. Le foto circolate in questi giorni e che mostrano intere aree urbane ridotte a rovine spettrali provengono quasi tutte da Shejaiya.

Per quanto si possa capire in questi giorni, i combattimenti a Shejaiya continuano tuttora. Ad esempio, mercoledì diverse decine di palestinesi sono morti quando alcuni colpi di artiglieria israeliana sono caduti su un mercato. I colpi sono arrivati durante il cessate il fuoco unilaterale proclamato da Israele, ma solo in quelle zone dove non erano presenti i soldati israeliani: non riguardava perciò il quartiere di Shejaiya, che si trova invece all’interno della “buffer zone”.

Conclusione
Detto questo, per comprendere la situazione, penso sia importante sottolineare che a Gaza stanno procedendo due diverse operazioni. Un bombardamento dall’aria di tutta la Striscia nel quale, oltre a prendere di mira le installazioni militari, secondo alcuni Israele sta danneggiando volontariamente alcune infrastrutture civili per piegare il morale della popolazione palestinese. Se così fosse si tratterebbe di una violazione delle leggi internazionali e di un crimine di guerra. Come ho scritto in questo articolo, d’altro canto, non ci sono ancora prove (e quelle che ci sono puntano nella direzione opposta) che Israele stia bombardando indiscriminatamente i civili o che, addirittura, li stia prendendo esplicitamente di mira [aggiungo per chiarezza che con “indiscriminatamente” intendo dire: “senza esercitare alcun genere di selezione del bersaglio e accettando qualunque quantità di perdite civili per raggiungere i proprio obbiettivi”]. Contemporaneamente è in corso una battaglia via terra nel quartiere di Shejaiya e forse in altre zone urbanizzate all’interno della buffer zone. In queste situazioni, come ha ammesso lo stesso esercito israeliano, le regole di ingaggio si sono allentante. Diversi comandanti hanno spiegato ai giornalisti che se i loro uomini vengono attaccati da una costruzione, quella costruzione verrà probabilmente attaccata e senza particolari riguardi (senza telefonate di avvertimento e roof-knocking, in sostanza). L’ONU ha più volte avvertito Israele che nonostante gli abitanti della buffer zone siano stati avvertiti di abbandonare le loro abitazioni, questo non significa che in quella zona l’esercito israeliano possa compiere attacchi in maniera indiscriminata.

Approfitto di questo post per rispondere ad alcune critiche che mi sono state rivolte nei commenti al mio articolo precedente: “Israele sta davvero cercando di risparmiare i civili?“, in cui analizzavo i dati sul sesso e l’età delle vittime palestinesi delle operazioni militari per cercare di capire se gli attacchi israeliani sono indiscriminati o se cercano in qualche misura di risparmiare i civili.

Metodo
La critica più importante, a mio avviso, mi è stata rivolta dall’utente Marco Seán McAllister. Scrive Marco:

[…] Forse Israele uccide proporzionalente più uomini fra i 20 e i 29 anni di quanti bambini o donne uccida. Questo dimostra solo che Israele ha una netta propensione ad uccidere maschi palestinesi di età compresa fra 20 e 29 anni, il che potrebe essere causato dall’affiliazione da parte dei membri di questo gruppo ad Hamas, come da un’ipotetica politica di Israele di sparare a vista al maggior numero possibile di uomini palestinesi fra I 20 e i 29 anni, indipendentemente dal fatto che siano civili o militari.

Si tratta di un’obiezione sensata e di cui tenere conto almeno in parte. Il fatto, però, è che la maggior parte dei morti e dei feriti – stando alle stesse dichiarazioni del ministero della Salute di Gaza – sono stati causati da attacchi aerei e di artiglieria. Né un pilota di F-16 né tanto meno un artigliere hanno la possibilità di distinguere con chiarezza il sesso e l’età dei proprio bersagli (gli artiglieri nemmeno vedono a cosa stanno sparando e questo rende l’uso dell’artiglieria una pratica estremamente rischiosa in aree densamente abitate). Credo che questa obiezione sia molto più sensata in caso di operazioni di terra più vaste e che riguardino ampie aree densamente abitate, come fu Piombo fuso e come ancora non sembra che sia Margine di protezione.

La questione della Siria
All’inizio dell’articolo ho notato il fatto che nonostante il bilancio dei morti della guerra civile in Siria sia molto più grave di quello nella Striscia di Gaza, la Siria riceve mediaticamente molte meno attenzioni. Nonostante sia un fatto incontrovertibile, a quanto pare ha suscitato molte reazioni ed è stata definita una “provocazione inutile, gratuita, spocchiosa”. La frase esatta era questa: “Anche se tragedie ancora più gravi, come quella che prosegue in Siria da più di tre anni, ricevono un’attenzione mediatica molto inferiore”. Che la tragedia siriana sia più grave, in termini numerici, è fuori discussione. Così come lo è il fatto che sia mediaticamente meno trattata della questione israelo-palestinese. Magari non piace (a me, ad esempio, non piace: vorrei che i lettori fossero interessati ad entrambe le questioni in egual misura), ma è un fatto. Inutile arrabbiarsi con chi lo fa notare.

Cosa potrebbe fare l’esercito israeliano se volesse
Nel mio articolo ho scritto che l’esercito israeliano possiede gli strumenti per uccidere quasi ogni singolo abitante della Striscia di Gaza in pochi giorni. Si tratta di una constatazione oggettiva che non può essere messa in dubbio. A titolo di esempio basta ricordare che nella primavera-estate del 1994, in Rwanda, poche decine di migliaia di Hutu armati di machete in circa quattro mesi sterminarono un milione di Tutsi. Gli abitanti della Striscia di Gaza sono poco meno di due milioni e sono concentrati in uno spazio molto ridotto, mentre l’esercito israeliano possiede tecnologie di sterminio infinitamente superiori a quelle di cui disponevano gli Hutu. Da questa mia affermazione in molti hanno inferito che io stessi brutalmente sostenendo che «gli israeliani sono “buoni” perché non lo fanno». Si tratta di uno straw man argument: nel mio articolo non c’è traccia di condanna o assoluzione morale e fin dal primo paragrafo ho specificato che non intendevo dare patenti di moralità a nessuno. Penso che possiamo dichiararci tutti d’accordo sul fatto che Israele possa sterminare tutti gli abitanti della Striscia di Gaza, ma che non lo sta facendo. A scanso di equivoci lo ripeto ancora: non c’è bisogno che li applaudiamo per questo.

La questione dell’embargo e della scelta dei numeri
Alcuni mi hanno criticato perché non ho inserito l’embargo a cui è sottoposta la Striscia di Gaza tra i conteggi del mio articolo. Come ho scritto sin dal primo paragrafo, l’obbiettivo del mio articolo riguarda principalmente l’operazione Margine di protezione. Credo che ci sia già abbastanza carne al fuoco così, senza aprire un fronte di discussione anche sull’embargo. Quello che mi premeva era discutere l’atteggiamento nei confronti dei civili durante quest’ultima operazione. È assolutamente possibile che in altre situazioni e in altri periodi Israele non abbia adottato le stesse cautele.

Una critica simile è stata quella che ha riguardato la scelta dei numeri. Alcuni mi hanno chiesto perché io non abbia inserito il conteggio dei feriti oppure perché abbia conteggiato soltanto le perdite durante l’operazione e non in un diverso lasso di tempo, ad esempio l’anno solare. Le risposte sono semplici: il problema con i feriti è che non ne conosciamo i nomi, il sesso e le età. Per la scelta del periodo, vale quanto scritto sopra: il mio interesse riguardava l’operazione Margine di protezione. È interessante notare che comunque, anche considerando tutto il 2014 prima di luglio, soltanto un palestinese è stato ucciso in seguito ad attacchi aerei israeliani (per la cronaca: si trattava di un miliziano).

Non si può moralmente fare un conto del genere
L’obiezione per me meno comprensibile, ma che senza dubbio mi è stato rivolta più spesso, si può riassumere così: «Non è moralmente corretto fare un conto del genere sulla pelle di persone morte». Una variazione sul tema, invece, recita: «Non c’è un metodo numerico per misurare la buona volontà di un esercito che bombarda un territorio abitato da civili». Non sono d’accordo con nessuna delle due affermazioni. Personalmente non credo che esista una specie di “confine morale” di fronte al quale la ragione si debba fermare e rinunciare ai suoi strumenti per comprendere la realtà. Trovo pericolosa la sola idea che un simile confine possa esistere e che ci sia un territorio dove la ragione non può entrare e soltanto le emozioni hanno cittadinanza. Il mio sforzo quotidiano è quello di tenere lontane le emozioni e le passioni e di combattere contro i miei stessi pregiudizi. La perfezione, in questo caso l’obbiettività perfetta, è impossibile da raggiungere, ma nondimeno è l’obbiettivo verso il quale dovremmo tendere.

Se possibile sono ancora più contrario alla variante di questa obiezione. Sono fermamente convinto che poca sofferenza sia meglio di molta sofferenza e, per quanto una sola morte sia una tragedia, sia meglio una sola tragedia piuttosto che diecimila. Nel corso della storia gli eserciti hanno avuto molti atteggiamenti diversi nei confronti dei civili. Un tempo, quando una città veniva espugnata dopo una dura resistenza, i conquistatori avevano il diritto legale di praticare tre giorni di saccheggio, uccidendo, rubando e violentando a piacimento. Nel corso della Seconda guerra mondiale la dottrina strategica dei bombardamenti accettava come inevitabile la distruzione di intere città e il massacro di decine di migliaia di persone. Sostenere che non c’è differenza tra incenerire una città e cercare di limitare i danni ai civili, pur accettando che ci saranno inevitabilmente delle morti, è il modo migliore per far tornare indietro l’orologio morale della storia e dare di nuovo ai generali la patente per uccidere indiscriminatamente i civili dall’alto dei loro bombardieri.

Davide De Luca

Giornalista. Ho scritto per l’Arena di Verona e per l’Agence Europe di Bruxelles. Ho collaborato ad alcuni libri d’inchiesta su CL e la finanza cattolica. Mi piacciono i numeri e l’economia e cerco di spiegarli in modo semplice. Su Twitter sono @DM_Deluca