Una legge, quattro porcate

Ieri il Senato ha approvato la legge delega sul lavoro, intitolato con un tracotante anglismo Jobs Act. Da settimane non si parlava d’altro, ma il voto di ieri ha cambiato e di molto le diverse analisi che si sono sviluppate in queste settimane, e ha dato la forma definitiva a una porcata – la peggiore del già mediocre governo Renzi – per diverse ragioni. Proviamo a metterle in fila.

La ragione istituzionale

Il governo Renzi ha voluto che questa legge delega si votasse attraverso un voto di fiducia. Ora, lo capisce pure un troglodita istituzionale che questa forzatura vuol dire estromettere del tutto il potere legislativo per appiattirlo su quello esecutivo. Il governo chiede la delega per legiferare nei prossimi mesi sul lavoro, rilasciando soltanto poche e terribili linee guida, di fatto quindi arrogandosi un potere d’arbitrio assoluto in materia. Qual è il luogo della discussione? Non la dialettica interna del partito di maggioranza annullata a colpi di scherno, non il parlamento ritenuto un impiccio, non il confronto con il sindacato relegato a un appuntamento di un’oretta prima di colazione tre giorni fa. Questo da parte di un governo che, ricordiamolo, fonda la sua legittimazione sul consenso delle Europee, e non su un voto a un programma per le elezioni politiche, e che non si attiene neanche al programma delle ultime primarie.
La decisione di ieri del senatore PD Walter Tocci di votare la fiducia, per fedeltà al partito, ma di rassegnare subito dopo le dimissioni è l’espressione tragica di questo disastro.

La ragione politica

Questa legge delega, vi invito a leggerla: qui. Pur nelle sue formulazioni vaghe e contradditorie, in una cosa è chiara: è un inno alla precarizzazione, all’esternalizzazione, alla dequalificazione. Di fatto elimina il principio costituzionale che l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro. Introduce tanti e tali inviti alla cosiddetta flessibilità che distrugge lo stesso ideale di una tutela dei diritti dei lavoratori. Quando per esempio si dice: “rivedere i criteri di concessione ed utilizzo delle integrazioni salariali escludendo i casi di cessazione aziendale”, io leggo che di fatto si possono prevedere forme di ammortizzatori sociali spalmati a pioggia in maniera totalmente arbitraria. Tipo contratti di solidarietà anche per aziende sotto i 15 dipendenti, tipo contratti di solidarietà anche se non viene dichiarato lo stato di crisi. Mi sbaglio? In pratica, la traduzione di quello che Renzi è andato proclamando nelle infinite interviste nelle ultime settimane – “lo Stato si deve interessare di chi è senza lavoro, non di chi ha lavoro” – non è certo un progetto iperkeynesiano, ma la messa in pratica di un nuovo tipo di Repubblica, fondata sulle toppe, sugli ammortizzatori sociali pensati come benevolenza. Renzi immagina lo Stato come un elemosinatore compassionevole, uno Stato assistenzialista (ma senza soldi: la consistenza delle coperture, essendo tutto così vago, è l’unico dettaglio importante che invece manca), che si dice pronto a riparare a qualche eccesso di povertà o di disoccupazione, ma soprattutto prono alle esigenze delle aziende. Confindustria non si è spellata abbastanza le mani: il Jobs Act è un regalo esagerato per qualunque imprenditore, gli lascia mano libera su tutto. Può licenziare, riprendere, utilizzare dei voucher di prestazioni occasionali per un monte ore che non è definito. A leggerla, pagina dopo pagina, pensavo: ok, mi metto anche io a aprire un’azienda. Ho tante e tali possibilità di sfruttare il lavoro, senza che i lavoratori possano appellarsi a nulla. Nei casi di disperazione, lo Stato – forse – interviene.
L’idea stessa di un diritto legato al lavoro viene minata; per questo Renzi è sincero quando dice che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica: rispecchia veramente l’immagine di un mondo che non esiste nella cultura politica del renzismo, che invece si presenta sempre di più come un craxismo di seconda generazione. Trent’anni dopo la battaglia sulla scala mobile che mise fine alle conquiste sul lavoro degli anni ’70, il modello renziano affronta la questione della società del post-lavoro, non assumendosi la responsabilità di redditi minimi di cittadinanza o similari, ma legando il reddito alle elargizioni di uno Stato impoverito, e il lavoro alle esigenze di imprenditori senza alcuna cultura industriale.

La ragione giuridica

A pagina 31 del disegno di legge, c’è scritto: “razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti, anche mediante abrogazione di norme, connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione, del medesimo rapporto, di carattere amministrativo”. Tutta la discussione sull’articolo 18 finisce qua. Nella più totale indefinizione. Il governo si arroga la possibilità di poter legiferare in seguito, attraverso i decreti attuativi, anche qui in maniera indefinita e arbitraria. Questo porterà a un busillis di non poco conto, che è il risultato del monstrum istituzionale di cui sopra. Perché per fortuna la Costituzione agli articoli 76 e 77 limita il ricorso alle leggi delega, giusto per dividere appunto potere legislativo e potere esecutivo. Lo sintetizza bene Civati in un post di ieri quando scrive

«Prima di presentare emendamenti (che non emendano granché) e di mettere la fiducia su una legge delega vaga e imprecisa, varrebbe la pena di rileggersi l’articolo 76 della Costituzione (e magari anche l’articolo 77): perché la furbizia di non mettere in delega alcun riferimento all’articolo 18 per ottenere la fiducia comporta una banale conseguenza. Che in base a questa delega il governo non potrà legittimamente modificare l’articolo 18. E, se lo farà, chiunque potrà ricorrere alla Corte costituzionale e avere ragione, come dimostra una vasta giurisprudenza in questo senso. Ma tanto non è importante essere, importante è sembrare».

Di fronte a questo non capisco se Poletti e Renzi confondano il senso delle istituzioni con il senso del ridicolo.

Ragione comunicativa

Un paio di miei amici oggi, mentre discutevamo del Jobs Act, mi chiedevano: ma insomma non c’è scritto niente sull’articolo 18?
Cioè tutta questa rottura di coglioni di mesi, e poi sulla carta non c’è niente di esplicito? Un altro mio amico, dopo aver letto il testo, era abbacinato: ci sono una serie di misure di non si è discusso per niente in queste settimane di dibattito invadente. Qualcuno di voi ha sentito parlare dell’estensione dei voucher per le prestazioni occasionale? Già. La comunicazione renziana, pervasiva, martellante, enfatica, non ha nemmeno il pregio di essere informativa e trasparente. Le leggi non soltanto non passano al vaglio parlamentare, ma nemmeno possono essere emendate dall’opinione pubblica.

Christian Raimo

Christian Raimo è nato (nel 1975) e cresciuto e vive a Roma. Ha studiato filosofia e ha pubblicato per Minimum Fax due raccolte di racconti: Latte (2001) e Dov'eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004). È un redattore di «minima&moralia». Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia.