Il futuro complicato del Teatro Valle a Roma

Il Teatro Valle ha convocato per oggi alle ore 12.00 una conferenza stampa e per le ore 17.00 un’assemblea pubblica per discutere sul destino molto molto complicato del teatro.

Dicono che sgomberano il Valle. Dicono fra tre giorni. Dicono che invece no, è in atto una mediazione e si arriverà a un risultato. Comunque vada l’esperienza del Teatro Valle occupato – per ciò che è stata in questi tre anni – è finita qui: sta finendo, dolorosamente, qui. Ieri c’è stato un incontro tra i rappresentanti della Fondazione Valle Bene Comune che in parte poi sono anche gli occupanti del Valle e quattro persone che erano lì in veste istituzionale: Giovanna Marinelli, assessore alla cultura del Comune di Roma; Michela De Biase, presidente della Commissione cultura del Comune di Roma; Marino Sinibaldi e Antonio Calbi, rispettivamente presidente e direttore del Teatro di Roma, che nel caso è l’entità a cui è stato demandato il ruolo di mediazione del caso Valle. L’incontro è stato molto chiaro. Si è partiti con due posizioni, e su quelle posizioni dopo due ore di discussione si è rimasti. Il Teatro e il Comune di Roma dicono: riconosciamo il vostro percorso, ma ora l’occupazione non ha più senso, ve ne dovete andare entro pochi giorni. Gli occupanti dicono: forse non avete ben capito il valore di questo percorso, ce ne andiamo, ma non entro tre giorni. Insomma c’è uno stallo, e la mediazione non è raggiunta, vedremo che succederà in queste ore.
Il comunicato del Teatro Valle è qui. Quello del Comune di Roma è qui.

È strana questa lotta tra due teatri, no?, mi dicevo ieri – ero presente all’incontro – e sembrava veramente che le due parti fossero le persone di un dramma il cui conflitto era da un’altra parte. La scena di un conflitto politico, che per certi versi Valle e Argentina erano obbligati a combattere in un gioco delle parti, o in una specie di arena del Colosseo: sembra l’ultima chance, forse una mezza vittoria per i contendenti ed è invece un po’ più di una mezza sconfitta per entrambi.
La rappresentazione, la messa in scena, di questo conflitto è lo sgombero (immediato? procrastinato? violento? dolce?). Il significato simbolico dello sgombero è la distanza tra due modi di vedere i rapporti di governo.
Sinibaldi, De Biase, Calbi e Marinelli sono persone intelligenti, e hanno dalla loro un paio di vantaggi in questa trattativa che trattativa lo è poco: conoscono il Valle, non sono dei politici caduti dal pero, e trattano per la prima volta, sono vergini. Sono persone che conoscono il teatro, hanno la stima degli occupanti, e non possono essere accusati di aver fatto già manovre a favore o contro. In questo senso il loro intervento di fatto squalifica e contraddice tutto quello che ha fatto il Comune di Roma finora. Alemanno e Marino, Gasperini e Barca (i precedenti assessori alla cultura): il tentativo della Barca, soprattutto, e fra un attimo vediamo perché.

L’altro vantaggio se lo sono rivendicato ed è l’unico terreno di vicinanza. A leggere il comunicato del Comune di Roma, a sentire ieri le loro parole, a fidarsi (e perché non si dovrebbe?) c’è una parte della battaglia del Valle che viene riconosciuta. Una parte molto ampia e insufficiente al tempo stesso.
Si riconosce agli occupanti che 1. hanno fatto bene a occupare tre anni fa – dopo la dismissione dell’Eti (Marinelli ha lavorato all’Eti per molto tempo) evitando la minaccia del degrado o della privatizzazione; 2. sono stati un modello dal punto di vista culturale e artistico: un teatro sempre aperto, i laboratori tecnici e artistici, l’attenzione alla formazione, quella per il contemporaneo e quella per la multidisciplinarietà; 3. devono essere parte attiva di questa eventuale – auspicata da parte loro – trasformazione da occupazione in un teatro partecipato (attraverso una convenzione tra Teatro di Roma e Fondazione Teatro Valle Bene Comune?). Questa dichiarazione, nel suo significato minimo, liquida di fatto tutti quei soloni che in questi tre anni hanno sproloquiato insultando il valore artistico e culturale di questo progetto. Quelli da Pierluigi Battista in giù per capirci, quelli che ogni tanto scrivevano degli editoriali che dipingevano gli occupanti come peones, e provocavano dicendo: fatemela fare a me la programmazione, sono tanto esperto di teatro io.
Ieri Sinibaldi sintetizzava questa posizione dicendo: avete vinto, abbiamo riconosciuto il valore della vostra lotta, non c’è più bisogno di occupare il Valle.

Qual è allora l’oggetto del contendere che rimane fuori? È una questione sostanziale o di orgoglio?
Il duello si gioca su un principio, e perciò questa storia – in qualunque caso, a parte i proclami e a parte le sincere intenzioni di chi si è impegnato a portare fino in fondo questo dramma – non finirà bene; foss’anche solo perché – l’abbiamo detto – il vero conflitto qui è solo rappresentato.
La distanza incolmabile, lo strappo irricucibile, la vera tragedia uno potrebbe dire facendo propri i termini di Peter Szondi, è quella di un dramma borghese. Siamo dalle parti di Pirandello, di Ibsen, di Cechov, e capite bene che se è così non può finire bene.
Come per Casa di bambola o per Il gabbiano è una questione di soldi e di governo.
Se leggete il comunicato del Valle, in fondo tutto potrebbe essere firmato a quattro mani anche dal Comune di Roma. Tutto, tranne le righe in cui si ricordano i principi economici e gestionali:

Principi di natura gestionale-economica: tutela dei diritti dei lavoratori; rapporti di lavoro basati su un equilibrio tra paghe minime e massime e ispirati a un principio di equità; una politica dei prezzi che garantisca l’accesso a tutti. Principi di governo del teatro: cariche esecutive turnarie; partecipazione democratica nei processi decisionali.

La lotta degli occupanti e della Fondazione Valle Bene Comune (5.600 soci, mica pochi) è stata di due tipi: una battaglia di resistenza e una battaglia di proposta. Quella di resistenza è chiara a tutti – non fate che questo posto venga lasciato al degrado, alla insignificanza, alla privatizzazione, alla disperazione che nutre chiunque oggi abbia deciso di fare cultura in Italia. Ma l’imprudenza che veniva rivendicata è stata anche un’altra: si è voluto pensare, provandolo a praticare prima di tutto e poi stilando dispositivi giuridici ad hoc, un diverso modello di governo della cosa pubblica. È possibile una gestione senza un cda eletto dai partiti di riferimento? È possibile dare cariche turnarie a chi deve amministrare? E, domande ancora più scabrose: è possibile contrastare il governo insensato della Siae? è possibile livellare gli stipendi dei vari lavoratori? è possibile rendere popolari i prezzi dei biglietti?

Su questi punti qui non c’è stato riconoscimento ieri. Questi sono i motivi principali per cui il teatro ha continuato a essere occupato in questi tre anni. Il Valle è stato un modello di educazione politica, studiato, promosso, premiato anche all’estero. Non solo, ovviamente, per la simbolicità della lotta. Ma anche semplicemente perché altrove provano a muoversi lungo la stessa linea. Provano a rispondere alla crisi politica e economica del settore culturale, coinvolgendo le persone in un processo partecipativo, inventandoselo con tutti. Sinibaldi sembrava forse almeno sulla carta più aperto al confronto, Marinelli sicuramente no.
Ma comunque questo è il senso di quello striscione che campeggia ora davanti al teatro, ora in platea, ora in galleria, dal giugno del 2011, Com’è triste la prudenza. La frase è del drammaturgo Rafael Spregelburd, e la sfida era simile: una battaglia di una nuova classe – quella degli artisti, dei lavoratori della cultura – nel trasformare un desiderio artistico in un modo diverso di vedere il mondo. La sensibilità di una narrazione del contemporaneo che si lancia a immaginare nuovi modelli gestionali. Il nostro mondo non ci piace così, ma vorremmo che cambiarlo fosse una parentesi, un rovesciamento rabelesiano. Ci piacerebbe strutturarli i cambiamenti. E del resto, insomma, non è un caso che tutto questo si sia sviluppato nella debacle sociale dell’Argentina post-Menem.

In una delle ultime assemblee, meravigliosamente inutili verrebbe da dire, che si sono svolte al Valle, erano stati convocati alcuni giuristi, proprio per continuare questo tipo di percorso politico. E sicuramente l’esperienza più innovativa che era venuta fuori era quella del Labsus, il laboratorio per la sussidarietà che in questi anni, in tutta Italia, sta cercando di organizzare le esperienze di governo dal basso attraverso strumenti legali specifici. Flavia Barca, con tutti i limiti suoi (la procrastinazione e la dispersione dell’interlocuzione) e non suoi (la sfiducia di Marino e del PD), aveva provato a far propria l’esperienza di Labsus, si era cominciata a studiare il regolamento per l’amministrazione condivisa che era stato presentato a Bologna lo scorso febbraio. Sembrava una decisione complicata e lunga, ma soprattutto era necessaria una conoscenza e una volontà politica che, in tempi di vere e false emergenze, nessuno vuole spendersi. Mentre al Valle si discuteva su nuovi modelli gestionale, da altre parti politiche si capiva come far arrivare tutto al cul-de-sac che oggi è simboleggiato da una Corte dei Conti che mette il fiato sul collo al Comune, minacciandolo di denunce per danni all’erario – ed è questo uno dei motivi di questa fretta. Non siamo distanti anni luce?

L’altro nodo del contrasto è il luogo. Quella del Valle è (cavolo, mi viene da dire è stata) un’occupazione anomala. Diversa da quella degli anni ’70 o ’90 o anche ’10. Non si è occupato un luogo dismesso e lo si è riqualificato. Si è scelto un luogo storico e lo si è si è tutelato. Si è scelto, per certi versi, di sostituire una legalità formale (non rispettata) con una iperlegalità (la responsabilità nei confronti del bene). Il Valle non si è trasformato in un centro sociale, ma è stato più teatro. Chi dice che il Valle ha buttato, rubato, sprecato soldi, mettendo in mezzo la questione delle bollette, dice il falso. Il Valle, a costi ridottissimi, ha prodotto un indotto incredibile. Soltanto per la preservazione del luogo, quanti soldi si sono risparmiate? Ve lo ricordate Alemanno che pagò 400.000 euro l’anno solo di guardiania per il dismesso Teatro del Lido. Ma non ricominciamo con l’elenco. Queste cose, chi le ha seguite in questi anni con un minimo di curiosità e di onestà intellettuale, le sa. Nelle occupazioni delle case, in genere si chiede cento (si occupano cento case a San Basilio) e poi si media e si ottiene cinquanta (cinquanta case a Tor Marancia). In questo caso questo tipo di mediazione non è traducibile: non c’è un mezzo Valle a Porta Maggiore. Ma soprattutto non c’è un mezzo modello di teatro amministrato in modo condiviso. E va dato atto che Sinibaldi ci ha provato o ci sta provando a offrire una soluzione del genere con una sua proposta di teatro partecipato o teatro dei diritti (sono proposte nel comunicato); ma le distanze tra le due visioni gestionali forse sono più grandi di quelle che sembrano.

C’è un’ultima cosa da dire, ed è un’impressione forte che si ha sulla questione Valle in questi giorni. Che tutte le parti i causa siano deboli. Il sistema culturale a Roma, e non solo a Roma, è al tracollo. Questa data simbolica del 31 luglio sembra quella di un film catastrofista. I giornali che chiudono (qui il comunicato ieri dell’Unità, qui l’articolo sulla probabile chiusura proprio del giornale del Teatro di Roma), davanti al teatro Eliseo (ieri ci sono passato davanti mentre tornavo dall’incontro) campeggiano degli striscioni che invocano la salvezza dalla chiusura, al Teatro Quarticciolo che tutti indicano sempre come un modello di gestione hanno tolto 40.000 euro dei già magrissimi fondi e quindi avrà una programmazione decurtata il prossimo anno, e quest’estate romana ha tutto fuorché l’allegria dell’effimero. È una crisi sistemica, come si dice, data dalla mancanza di investimenti economici, e dalla mancanza di immaginazione. I soldi non arriveranno e un bel pezzo d’immaginazione con lo sgombero del Valle se ne andrà.

I quattro rappresentanti delle istituzioni si stanno spendendo in questa iniziativa per non far passare una linea politica che è sicuramente peggiore. Questa però non è una buona notizia, ma solo la consapevolezza che la loro offerta è un boccone avvelenato di cui però loro stessi non possono che nutrirsi. Investire sulla cultura non frega quasi a nessuno, e il confronto di ieri è quello tra due attori marginali. La questione Valle forse nelle prossime ore diventerà, come paventato o sperato da molti, una questione di ordine pubblico. Il conflitto reale è tra queste due parti: chi ha la capacità di riconoscerlo sa che si tratta di una lunga lotta e che in questo momento – con una vulgata neoliberista ormai introiettata e un’indifferenza totale rispetto alle sorti della cultura – si parte comunque sconfitti; e chi ha l’occhio allenato scorge anche in filigrana un regolamento di conti interno a quel partito della nazione che è il Pd.

E quindi? E quindi c’è questa assemblea oggi appunto, alle 17 al teatro. Si deciderà di mediare (leggi: arrendersi) o di rimanere nel teatro (aspettare lo sgombero). È una decisione che ha senso prendano le persone che in questi anni il teatro l’anno vissuto, animato, ne hanno fruito. Quei 5.600 soci, per primi. Ma anche le famiglie che si sono andate a vedere uno spettacolo per bambini una domenica pomeriggio, quelli che hanno fatto un’ora di fila per il concerto di Jovanotti, quelli che hanno frequentato gratis i laboratori… Sono loro che sono di fatto coinvolti. Se l’occupazione è stata illegale, loro hanno partecipato a quell’illegalità. Ognuno ha voce in capitolo, è giusto che sia così. Spero veramente che oggi ci sia un sacco di gente.

Ecco, questa, anche nei toni, sembra l’ennesima chiamata all’emergenza. Ma su questo punto il comunicato del Valle, come dire, mente in buona fede. Non è un’emergenza. Anche domani ci sarà la stessa battaglia, anche il mese prossimo, anche fra un anno. Si tratta di capire non cosa accadrà al Valle, ma cosa accadrà a noi. E questa invece è sempre un’emergenza vera. Si tratta di capire quando cominceremmo a pensare a un modo diverso di fare politica. Si tratta di capire quando penseremo che questa crisi economica e sociale non ci vede solo come vittime. Si tratta di capire quando vorremo smettere di delegare, ma studiare, agire, intervenire. Se continuo a ringraziare i compagni del Valle è perché in questi tre anni mi hanno insegnato molte di queste cose. E sono convinto che continueranno a farlo.

Christian Raimo

Christian Raimo è nato (nel 1975) e cresciuto e vive a Roma. Ha studiato filosofia e ha pubblicato per Minimum Fax due raccolte di racconti: Latte (2001) e Dov'eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004). È un redattore di «minima&moralia». Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia.