Nymphomaniac è commovente

Una donna giace nel cortile interno di un palazzo, è ferita, mezza morta. Arriva un uomo, decide di portarla in casa, le lascia un letto per riposarsi, le offre un tè. Poi le chiede di raccontargli la sua storia. Lei si chiama Joe, lui si chiama Seligman. Lei è interpretata magnificamente da Charlotte Gainsbourg, lui superbamente da Stellan Skarsgård. Questo è l’inzio di Nymphomaniac , che ovviamente lungi dall’essere tutte quelle puttanate che si scrivono nei titoli dei giornali (“scandalo”, “provocatorio”, pornografico”), è un meraviglioso, tenerissimo, avvolgente, trattato visivo di quattro ore e passa – nella sua versione più breve; cinque e mezzo nella lunga, che uscirà quest’estate – sul desiderio, uno di quei film da infilare nella collana di perle di Lars von Trier insieme a Le onde del destino, Dancer in the dark, Dogville e Melancholia.

Il carattere filosofico, espositivo, in qualche modo “a tesi”, del cinema di von Trier qui utilizza vari dispositivi: la divisione in capitoli (otto) – come era ad esempio per Le onde del destino; la sceneggiatura da dialogo platonico tra Joe e Seligman; gli inserti ludici da video-arte (brevi digressioni in video-clip o da History Channel su vari archetipi culturali che vengono evocati da Seligman); le sovraimpressioni grafiche, alla Peter Greenaway del Ventre dell’architetto per capirci…

All’interno di questa struttura narrativa, più letteraria che cinematografica, ci viene raccontata, come una fiaba al camino, dalle sue stesse labbra la storia di Joe: ninfomane, infelice, donna convinta di “essere una brutta persona” – dall’infanzia a quello che è accaduto nel cortile. Seligman la ascolta, la consola, e ogni volta trae spunto dalle vicende di Joe per metterle in relazione con un campionario vastissimo di idee platoniche che hanno a che fare con il desiderio, l’amore, le passioni (in una specie di mappatura randomica e fiabesca, ipercolta e infantile, anche qui, della storia dell’immaginario umano). Lei è una ragazza che è stata a contatto compulsivamente con i corpi; lui è uno studioso che ha vissuto solo e soltanto nel mondo dei libri. Lei è puro Es; lui è puro Superego. Lei non sa interpretare nulla della sua vita vissuta come pura adesione agli impulsi; lui sa solo interpretare, apparentemente onnisciente (sa dell’arte dei nodi, della pesca con la mosca, di arte medievale, di Bach e Fibonacci…). Lei è una drogata di sensi, lui è un tossico di idee. Lei ha scopato migliaia di uomini, ha fatto ruotare tutta la sua esistenza intorno ai propri orgasmi; lui è ascetico e, si scoprirà, vergine.

Ma hanno una cosa in comune. Sono intontiti e fragili, come sotto botta. Come con i ragazzi borghesi che facevano finta di essere degli Idioti, come con la stupida Bess delle Onde del destino che si metteva a scopare in giro per amare e guarire il suo uomo dal coma, come quell’altra povera rincoglionita di Grace presa violentemente in giro da tutti in Dogville, come gli scappati di casa che frequentano l’ufficio del Grande capo, da anni incurante dei rischi degli eccessi di esplicitezza – il ridicolo, il grottesco involontario, il ricatto del contenuto, il kitsch… – von Trier fa propria la lezione del suo maestro dichiarato Dreyer (di cui, per dire il fanatismo, indossava un vecchio smoking per commentare le puntate della sua serie tv Europa): fregarsene del realismo, usare un formalismo estremo che sia sporco o inappuntabile (telecamera a mano, digitale, recitazione teatrale, tutta la roba Dogma e post-Dogma…) per provare invece a attingere a un piano metafisico alimentando la forza simbolica di personaggi imbelli e storditi, forse pazzi, forse imbecilli: con l’aspirazione di arrivare alla purezza ineffabile della Giovanna D’Arco interpretata da Renèe Falconetti o del Johannes di Ordet. In Nymphomaniac tutti i personaggi ci appaiono mezzi stonati, stolidi nella loro visione parzialissima, risibile al limite del caricaturale, del mondo esterno. Come dire, il mondo sensibile chiaramente non basta: “Forse l’unica differenza tra me e gli altri è che io ho preteso di più dal tramonto, colori più spettacolari quando il sole arriva all’orizzonte, forse è questo il mio unico peccato”, dichiara Joe all’inizio del suo racconto, facendoci chiedere: è un’esaltata? una sbruffona? è una fricchettona? Certo noi non le crederemmo se il film durasse meno delle quattr’ore e mezza che dura; ma cullati, sedotti dalla sua narrazione, la sua ebetudine ci appare una forma di mistica che sembra voler trovare nel sesso non solo una chiave di conoscenza del mondo, ma un possibile passaggio a una dimensione di felicità ultraterrena.

Socialmente inetta, non particolarmente intelligente, l’unica abilità, forse l’unica occupazione di Joe è stata scopare, senza amore, senza capacità di relazione: da questo catalogo di atti sessuali e di corpi consumati, ora Joe può passare in rassegna tutte le figure importanti che ha incontrato: un padre amorevole e una madre anaffettiva (una coppia bergmaniana ritratta in un bianco e nero anche qui sul filo dell’effetto parodico), il ragazzo che la sverginò, l’amica con cui mise in scena giochi erotici, l’amante tenero, l’amante complice, l’amante insistente, due tre capi nei vari lavori che fece, il compagno con cui ha fatto una figlia, una sorta di ragazza adolescente che ha adottato quasi come una figlia che ha finito per essere una sua amante, un master con cui ha costruito un regolamentato rapporto sadomaso… Quasi tutti questi uomini e queste donne sono chiamati solo con delle iniziali, H o K o L, e anche coloro che sembrano avere avuto nella vita di Joe un’importanza cruciale, come Jerôme (Shia LaBeouf) che è al tempo stesso il suo primo ragazzo, il suo capo e il padre di sua figlia, non paiono aver altra vita che quella di figure simboliche, carte di Propp, facendo dubitare lo spettatore stesso – l’ascoltatore di questa storia – della plausibilità del racconto di Joe. Ma la plausibilità non ci importa (anche quando, come una specie di cameo alla Cassavetes, von Trier inserisce la scena ferocissima, emotivamente pornografica, con la moglie tradita Uma Thurman che va a riprendersi il marito a casa dell’amante Joe). La lotta messa in scena attraverso il dialogo tra Joe e Seligman e il racconto della storia sessuale di Joe è quella tra un maschile asessuato e un femminile ipersessuato: sarà mai possibile tra questi due princìpi una qualche forma di alleanza?

Sarà possibile una vicinanza che ci sollevi, insieme a Joe, dalla sensazione di abissale solitudine che ci distrugge mentre siamo su questa Terra? Se l’angoscia non ha più le sembianze di un pianeta che sta schiantando proprio contro la Terra come accade in Melancholia (la cui sequenza finale è forse la scena più potente del cinema degli ultimi dieci anni), non per questo è meno profonda. Ma: lo sguardo ottuso di Stacy Martin, la giovane Joe, mentre scopa con chiunque le capiti a tiro, o quello perennemente implorante di Charlotte Gainsbourg, Joe adulta, mentre continua con sempre meno spensieratezza a accumulare incontri sessuali, ci pongono un disperato interrogativo: e se non trovassimo mai, mai, nemmeno in un istante della nostra vita, la sensazione di essere con qualcuno? Per questo è terribile e bellissima (in un bianco e nero cupo, tra l’onirico e il documentaristico) la sequenza dell’agonia del padre di Joe (Christian Slater), l’unica persona per cui forse lei ha nutrito qualcosa di simile a un affetto: in un letto d’ospedale lui urla e si caca addosso, Joe sgomenta lo accarezza e poi va a farsi scopare dal primo infermiere capitato in corridoio.

È un momento straziante perché la nostalgia di un padre perduto, come istanza salvifica, attraversa tutto il cinema di von Trier e sembra aver a che fare davvero con una richiesta di von Trier stesso: von Trier non ha mai avuto la possibilità di aver un rapporto con il suo padre naturale, la madre gli rivelò solo quando era già grande che il padre con cui era cresciuto non era il suo vero padre e i tentativi di contattarlo sono stati poi abbastanza vani. Sembra che qui dunque, al di là quindi dell’ambizione dichiarata di fare un film pornografico o un film filosofico di tema sadiano, si riveli la vera potenza sfidante di Nymphomaniac: un film sul padre perduto. Già nelle Onde del destino il Padre veniva in aiuto di Bess solo alla fine, facendo suonare dal cielo le campane in un miracolo al di là di ogni credibilità anche estetica. Già nel Grande Capo i poveri sperduti dipendenti si muovevano tutti spaesati intorno al questo capufficio che solo pareva avere le chiavi di qualche ordine collettivo. Già in Dogville il Padre tornava per ristabilire la giustizia. Questo padre rimpianto in Nymphomaniac si manifesta almeno per lasciare una parola profetica per Joe: dopo averle passato in eredità l’unica passione che le dà pace, quella per gli alberi (lei conserva dall’infanzia un quaderno in cui ha incollato le foglie e lo sfoglia nei momenti di più acuta disperazione). E se ci fidiamo di questa prospettiva, guardando in modo molto personale, quasi intimo, il cinema di von Trier, ecco che diventa evidente come Nymphomaniac è anche una rilettura delle sue pellicole precedenti, nel tentativo molto toccante di “correggere” la sua disperazione. Posso tremare alla scena in cui Joe, per andare invece a farsi picchiare dal master sadomaso (Jamie Bell) che pratica solo nelle ore notturne, lascia da solo suo figlio piccolissimo? La scena ricalca quella iniziale di Antichrist in cui il bambino precipita dal balcone. Anche qui il bambino si sveglia nella casa vuota di notte, sorride, si alza, scavalca le protezioni del suo lettino; la scena sembra sceneggiata in modo quasi identico, come una auto-citazione, ma ha un esito diverso. La tragedia è evitata per l’intervento provvidenziale del padre Jerôme, appena tornato a casa. Ancora: posso commuovermi ancora, stucchevolmente, di fronte alla scena ripetuta di Joe che cammina nei boschi con il suo padre amato, un quadro archetipico, tanto infantilmente poetico che sembra una preghiera bambinesca, naïf?

Ma anche questa volta von Trier ci illude: se questo lunga seduta autoanalitica che è Nymphomaniac (Es e Superego a confronto cercano di dar vita a un dialogo infinito), il finale – sorprendente e atroce – ci ferisce ancora più profondamente, lasciandoci con l’unica consolazione che questo trauma inesausto darà vita ancora ad altre opere meravigliose, laceranti, come questa.

Christian Raimo

Christian Raimo è nato (nel 1975) e cresciuto e vive a Roma. Ha studiato filosofia e ha pubblicato per Minimum Fax due raccolte di racconti: Latte (2001) e Dov'eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004). È un redattore di «minima&moralia». Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia.