La libertà di espressione di India è sempre meno

La settimana scorsa ho ricevuto una comunicazione dall’università dove insegno. “Gli studenti stanno preparando una protesta contro l’attacco ai giornalisti al tribunale di Delhi. Ai docenti e al personale viene richiesto di partecipare per dimostrare solidarietà a questa causa e richiede a tutti i membri della facoltà di essere presenti tra l’1:30 e le 2:30 odierne nel cortile del campus.”

Un’università che “richiede” ai professori di protestare pubblicamente assieme agli studenti, direte voi? Ma siamo in India, c’è un primo ministro cresciuto nella militanza induista e inoltre in questa università s’insegna comunicazione e giornalismo, che si basano sull’importanza di difendere la libertà d’espressione, fondamenta della professione. In India, negli ultimi mesi, questa libertà, come lentamente si sta accorgendo anche il resto del mondo è, per usare un eufemismo, messa alla prova. Vedi quel che ne scrive Nilanjana S. Roy sul  New York Times  o nell’editoriale o su Le Monde, per capirci.

Una delle migliori studentesse del mio corso ha scritto una lettera aperta al primo ministro Modi, ultimamente molto criticato anche per i suoi continui viaggi all’estero e la scarsa attenzione ai sommovimenti interni:

«Caro Modi ji,” ha scritto Shaminder Kour, “ho saputo che stai facendo un tour interno dell’India questa volta, incontrando contadini eccetera. Te ne sono veramente grata, però devo dirti che è ora che cambi il tuo discorso. Hai vinto le elezioni nel 2014 sulle basi del tuo comizio: “Sono un semplice venditore di tè”, ma se ti fossi guardato un po’ attorno ti saresti accorto che il paese è in subbuglio.

La gente si sta ribellando per le strade, i legislatori stanno diventando dei fuorilegge, i giornalisti vengono picchiati, i militanti vengono torturati e gli viene gettato addosso l’acido. Modi Ji, metà del paese è stato accusato d’essere anti-nazionalista. Gli studenti vengono accusati di sedizione e alcuni di loro hanno deciso di togliersi la vita. L’università è vittima di tagli severi ai finanziamenti, mentre i contadini vengono abbandonati a morire a dritta e a manca. I tuoi ministri continuano a fare dichiarazioni controverse e francamente siamo stanchi di sentirti chiedere “perché la gente ce l’ha con me?” E questi tuoi status update da “venditore di tè” a ripetizione poi…

Vogliamo aria pulita, acqua e terre verdi. Vogliamo una democrazia secolare e pluralistica. Non vogliamo la Polizia del Pensiero e il controllo dello Stato sulle nostre opinioni. Vogliamo che gli Adivasis (popolazioni autoctone dell’India, n.d.r.) e le popolazioni tribali abbiano il controllo delle loro terre. Dobbiamo smetterla di denominare chiunque come un ribelle, soprattutto se sta combattendo per ciò che è veramente suo. Abbiamo bisogno di un leader e non di un seminarista hindù degli RSS (associazione di estremisti indù in cui militò per decenni Modi, n.d.r.). Ce la puoi fare?»

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Un po’ di fatti. O dati, com’è di moda chiamarli nell’era del data-journalism.

Un giovane universitario membro della casta Dalit (cosiddetta degli “intoccabili,” termine che ai diretti interessati giustamente non piace venga applicato, come nemmeno quello di pariah) il mese scorso è stato espulso dall’università di Hyderabad dopo scontri e discussioni animate con l’ABVP, l’associazione giovanile del partito al potere, il BJP induista. Di conseguenza si è suicidato per la frustrazione e il senso di fallimento. Modi ha tenuto un discorso all’università di Lucknow dicendosi dispiaciuto. Gli studenti lo hanno zittito gridando “Vattene!” E lo studente Dalit, Rohit Vemula, è diventato un simbolo nazionale per una generazione di ventenni, con i suoi poster incollati sui muri di tante metropoli.

Nei mesi precedenti erano già stati uccisi in imboscate tre intellettuali, professori, autori. Tutti accusati di propagare idee laiche e blasfeme per gli estremisti indù. Poco prima Mohammad Akhlaq era stato linciato in Uttar Pradesh con il sospetto di avere mangiato del manzo, sacrilegio per alcuni indù estremisti.

L’ABVP, o Akhil Bharatiya Vidyarthi Parishad, si è poi scontrato due settimane fa con le associazioni di studenti di sinistra nell’ora famosissima JNU, l’università di Delhi dedicata al padre fondatore dell’India moderna, Jawaharlal Nehru. Gridava alcuni slogan. Gli ABVP lo hanno denunciato per sedizione. Circolava un video del suo discorso e il leader dell’associazione studentesca di sinistra Kanhaiya Kumar è stato arrestato proprio con l’accusa di sedizione. Il video si è scoperto essere un  falso e che il ragazzo non ha gridato alcuno slogan anti-India. Tutt’altro.

Nel frattempo però nel tribunale dove doveva venire ascoltato Kanhaiya Kumar, una squadra – è il caso di dirlo – di avvocati vestiti con le loro belle toghe nere ha pestato sia lo studente che alcuni giornalisti. Un leader del BJP ha preso a calci e a pugni un esponente del Partito Comunista Indiano.

La destra religiosa ora grida contro l’anti-nazionalismo di chi, secondo loro, inneggia al Pakistan e all’indipendenza del Kashmir, nascondendosi sotto gli abiti del laicismo. Girano in questi ambiti addirittura dei badge con scritto #iwillnottolerate, non tollererò. Gli è stato fatto notare che è un attestato di intolleranza davvero contrario, questo sì, allo spirito della Costituzione indiana e quindi, questo sì, anti-nazionalista.

Ora sia il leader studentesco Kanhaiya che lo studente suicida Rohit sono diventati simboli di una generazione di ventenni che protesta in tutti gli atenei dell’India per il diritto di esprimere le proprie idee, stando attenti a non farsi strumentalizzare dagli estremisti di sinistra, una sorta di black bloc, per usare paragoni più europei. Lasciando perdere le varie forme della manipolazione del nazionalismo che appesta l’Asia tanto quanto l’Europa, la questione è comunque un punto di svolta per l’India e anche per il governo Modi. Le accuse di sedizione volando con tanta facilità. Troppa.

La stessa scrittrice Arundhati Roy ha dovuto passare le ultime settimane nei tribunali a difendersi da questa stessa accusa, perché considerata simpatizzante dei ribelli naxaliti per qualcosa che ha scritto. All’ex direttore dell’Hindu e direttore di The Wire, Siddharth Varadrajan, è stato impedito di parlare all’Allahabad University, un po’ com’è accaduto in questi giorni ad Angelo Panebianco a Bologna, così per ricordare di nuovo le tante somiglianze tra India e Italia, che spesso siamo a disagio nel riconoscere.

Eppure, come sottolineano i costituzionalisti, i cittadini indiani sono liberi di criticare il governo, sia quello di Delhi che quello dei diversi Stati indiani. E lo fanno spesso e con coraggio, com’è giusto sia, poiché queste sono le basi della democrazia partecipativa.

La libertà di pensiero ed espressione di questo pensiero è un diritto garantito dall’articolo 19 (1) della Costituzione indiana, così simile a quella italiana, e nata nello stesso periodo. In quest’articolo è specificato che tutti i cittadini indiani hanno diritto “alla libertà di pensiero e di espressione”.

Nella successiva clausola 19 (2) si specifica che il governo può creare delle leggi che impongono “ragionevoli restrizioni” a queste libertà “nell’interesse della sovranità e l’integrità dell’India e della sicurezza dello Stato”. Ma nulla viene detto dell’antiquata “sedizione,” retaggio di un sistema di leggi britannico e imperialista anch’esso, deliberatamente e volutamente esclusa dagli architetti della Costituzione proprio per evitare che venga usata “come lenitivo per le vanità ferite dei governi,” così commenta un costituzionalista.

Ma intanto l’obiettivo dei paladini dell’Hindutva, il piano di rendere totalmente induista l’intera India, progetto dell’ABVP, degli RSS e del BJP, e non poi tanto velatamente quello di Modi, che da costoro è stato eletto e viene sostenuto, è riuscito. Intimidire il nemico. Impaurirlo. Fargli pensare alle conseguenze violente del proprio diritto di essere ciò che si vuole essere e dire quel che si vuole dire. Proprio come accadde quando un militante degli RSS uccise il Mahatma Gandhi.

Qualche dietrologo sussurra che si tratta di una demonizzazione della sinistra in vista delle elezioni in West Bengal e in Kerala, Stati dove tradizionalmente sinistra e estrema sinistra sono molto più forti che altrove. E che quest’abbinamento “sinistra=sedizione” e “protesta=anti-nazionalismo” serve al BJP solo a portare a casa voti necessari a un Parlamento che non riesce a varare le riforme promesse in campagna elettorale dal leader Modi.

Siamo a un momento di svolta in India. I simpatizzanti violenti dell’Hindustan estremista, che tanto ricorda il Pakistan, vengono accolti con occhiolini complici delle istituzioni. La polizia è stata autorizzata a usare in maniera sproporzionata la forza e applicare arbitrariamente la legge, basandosi su fatti poi dimostrati falsi, vedi ad esempio il famoso video posticcio che accusava il leader studentesco della JNU.

Così si spera di zittire ogni protesta, spianando la strada per l’ammutolirsi delle voci della diversità: buddhisti, musulmani, cristiani, ma soprattutto i laici e la sinistra che vaga orfana di un Congress Party, ormai senza direzione e affidato a una debole dinastia malamente tenuta in piedi da Sonia Gandhi.

Come ha dichiarato recentemente un giudice della Corte Costituzionale del Sud Africa: “L’espressione è davvero libera solo quando fa male.” Ma deve far male a chi ne viene criticato, non a chi esprime quella critica. Se no si chiama libera repressione.

Carlo Pizzati

Scrittore, giornalista e docente universitario. Scrive per "Repubblica" e "La Stampa" dall'Asia. Il romanzo più recente è "Una linea lampeggiante all'orizzonte" (Baldini+Castoldi 2022). È stato a lungo inviato da New York, Città del Messico, Buenos Aires, Madrid e Chennai. Già autore di Report con Milena Gabanelli su Rai 3, ha condotto Omnibus su La7. Ha pubblicato dieci opere, tra romanzi, saggi, raccolte di racconti brevi e reportage scritti in italiano e in inglese. carlopizzati.com @carlopizzati - Pagina autore su Facebook - Il saggio più recente è "La Tigre e il Drone" (Marsilio 2020),