È l’ora di trasformarsi in veri europei

Cos’hanno in comune la crisi finanziaria che ha colpito la Grecia, la crisi dei profughi e la crisi terroristica più recente? Sono prodotti collaterali della mancanza di una vera Unione in Europa.

Le ragazze greche che in questi giorni si prostituiscono per un panino o al prezzo di 2 euro e 12 cent per 30 minuti, come scrive “The Independent” sono finite così per tante ragioni. Una di queste è che non esiste una vera banca europea a erogare prestiti alle regioni bisognose, una banca europea che sia poi in grado di soccorrere quei paesi che, per le più svariate e spesso immeritevoli ragioni, non possono restituire il denaro. I prestiti invece ci sono stati tra nazioni dell’Unione. Ed è anche questo fatto ad aver scatenato la crisi fiscale.

La crisi dei profughi accade anche perché, pur essendoci una frontiera unica e comune che racchiude i paesi europei, non esiste una vera forza europea di controllo. Ci sono le autorità dei singoli paesi, che non solo hanno problemi di coordinamento tra loro, ma anche all’interno dei paesi stessi. Questo dato si è visto brillare in modo lampante nella più recente caccia al terrorista tra le banlieu di Bruxelles. Anche qui, la mancanza di un coordinamento non solo belga, ma anche europeo, è stata costosissima. E proprio nella capitale dell’Europa.

Questa è l’analisi dell’economista Paul Krugman in un editoriale sul New York Times intitolato “Europa l’Impreparata.” L’editorialista americano discetta, pro domo sua, è proprio il caso di dirlo, sulla disUnione europea e su quanti guai stia causando a se stessa e nel mondo. Krugman dimentica però che l’Unione è giovanissima, soprattutto se confrontata, come fa lui, con l’America. A parte che il paragone storico con gli Stati Uniti non ha senso, ma volessimo limitarci anche all’età di un’Unione, quando gli Stati Uniti avevano gli anni che ha oggi la Ue, anzi un paio di decenni in più, si dilaniarono in una Guerra Civile che massacrò buona parte della sua popolazione più giovane. Non solo, giusto due settimane fa, i governatori degli Stati Uniti si sono dimostrati tutt’altro che compatti sulla politica di accoglienza ai profughi. E il nuovo Trumpismo dimostra quanto poco unitaria sia l’America in questo momento, sia sullo scontro razziale che sull’immigrazione, sui diritti civili e sui diritto all’aborto. Ma Krugman, tralasciando il paragone improprio con il suo Paese, non ha torto nel vedere la debolezza dello spirito europeista alla base di tanti problemi contemporanei, visti da questa calma prospettiva macroscopico, al di sopra delle ansie da talk-show allarmisti, oltre le paure a volte abilmente manipolate per imporre politiche frettolose e non sempre democratiche.

Ci sono nuove barriere che si stanno innalzando in Europa. I tre punti analizzati da Krugman, le crisi finanziarie, l’allarme profughi e gli attacchi del terrorismo, si propagano più facilmente anche grazie a una disunione che si sta concretizzando con ulteriori sfarinamenti.

Infatti, dopo 26 anni dalla caduta di quel Muro di Berlino che spaccava in due il continente dal 1961, ora Francia, Germania, Austria e Svezia hanno scelto di restringere la libera circolazione di Schengen e ripristinare alcuni controlli alle frontiere. Ed ecco che in Ungheria, uno di quei paesi dalla cui emigrazione verso l’Europa Occidentale ci si voleva difendere fino a pochi anni fa, ora s’innalza un vero muro per bloccare i profughi. Perché, come ha detto quest’autunno il premier Viktor Orbàn, bisogna “difendere l’Europa cristiana” dalle orde musulmane. Naturalmente ci sono i vari Salvini, LePen e via scendendo per li rami del populismo a dare manforte in quasi tutta Europa. Movimenti di minoranza, ma in crescita.

Siamo a un “1989 al contrario,” come ricorda Timothy Garton Ash in una sua analisi sul tema per il Guardian  sottolineando che in verità gran parte dei terroristi, sia a Londra 10 anni fa che a Parigi quest’anno, sono o nati o comunque cresciuti in Europa fin da piccoli, quindi da più di 15, se non 20 anni. Non sono arrivati con queste ondate di profughi. Sono ormai autoctoni. 

L’Europa è divisa. Nord/Sud, Est/Ovest. Britannici che storcono il naso e dicono che forse se ne vanno, ma poi restano. Olandesi che nei sondaggi dicono di voler uscire dal trattato di Schengen. Destra/Sinistra. Razzisti/Multiculturalisti. Crociati/Relativisti. Anti-euro/Pro-euro. Filo-Usa/Anti-Usa. Viva Putin/Abbasso Putin. Pro-Natale/Anti-Crocefissi. Cacciamoli tutti/Accogliamoli e nutriamoli. Ok, vive la différance, che è proprio il bello della nostra cultura, ma la differenza prima o poi deve portare a una sintesi e a un’azione comune. Unitaria.

Quando la tragedia di Parigi avrebbe dovuto unificare un’Europa che in quella grande città si riconosce, ecco che a distanza di più di due settimane siamo tutti lì a litigare, a volerci rintanare spaventati nelle nostre tane nazionaliste e dentro a quelle tane umide ci sbraniamo di insulti, spaventati, gli occhi strabuzzati.

Ma come? Quando i Catalani chiedono che venga rispettato il loro diritto di autodeterminazione nei referendum indipendentisti è tutto un gridare “l’Unione fa la forza!” dentro i confini di una nazione e di un’Europa, ed è tutto un sciabolare di retorica contro la divisione proprio come concetto.

Adesso che il pericolo è vero e forte, che viene dalla crisi finanziaria irrisolta, dalla crisi umanitaria costante e anche da quella di un conflitto sul proprio suolo con tecniche di guerriglia terroristica, facciamo passi indietro invece che in avanti nell’unire l’Europa. Invece di creare quella banca europea, quella autorità europea alle frontiere, quell’esercito comune, facciamo il contrario. Muri. Decisioni unilaterali. Controlli tra europei, alle frontiere.

Questo è il momento di fondare una vera unione in Europa. Adesso è quando bisogna fare quel salto in più, quando ormai una buona parte della generazione tra i 20 e i 30 anni riesce a comunicare, chi più chi meno, in quell’inglese-europeo che si sente ovunque nelle capitali e grandi città del continente. È il momento di salire quel gradino, non di fare paragoni tra chi è più bravo in questo e chi in quello. È il momento di scoprire quanto nella forma mentis non sei italiano, Francese, Inglese, Spagnolo, Polacco, Ungherese, Sloveno, Olandese (le maiuscole sono solo per enfasi), ma quanto sei davvero Europeo.

Belle illusioni? Sogni di una generazione di quarantenni delusi, cresciuti troppo a lungo all’ombra di una idealistica bandiera blu con un cerchio di stellette? O non sono piuttosto conclusioni costruite su una storia, una battaglia economica globale, ma anche una letteratura, un cinema, una cultura, e i famosi “valori” che sono anche politica comune, accumulata in decenni di un euro-parlamento, troppo costoso e fallimentare per tanti aspetti, ma che ha comunque costruito delle basi di dialogo, di conoscenza e di politica comune (rocciosa, difficile, controversa, ma comune)?

Lasciarsi sgretolare così, al primo “Buh!” di una crisi finanziari-umanitaria-bellica vuol dire lasciar emergere quell’impaurito e prepotente mostro nazionalista che bisognava aver seppellito con la Seconda Guerra mondiale.

È l’ora di trasformarsi in veri europei.  Questo ha un costo in termini di sovranità nazionale, sia nella politica economica che in quella interna ed estera. Ma non è evitabile. L’alternativa ha una gran brutta faccia. E non è che ci sia molto tempo.

Carlo Pizzati

Scrittore, giornalista e docente universitario. Scrive per "Repubblica" e "La Stampa" dall'Asia. Il romanzo più recente è "Una linea lampeggiante all'orizzonte" (Baldini+Castoldi 2022). È stato a lungo inviato da New York, Città del Messico, Buenos Aires, Madrid e Chennai. Già autore di Report con Milena Gabanelli su Rai 3, ha condotto Omnibus su La7. Ha pubblicato dieci opere, tra romanzi, saggi, raccolte di racconti brevi e reportage scritti in italiano e in inglese. carlopizzati.com @carlopizzati - Pagina autore su Facebook - Il saggio più recente è "La Tigre e il Drone" (Marsilio 2020),