Cara India, ti scrivo.

Cara India,

ti ringrazio perché non ti offendi quando, guardando le tue strade caotiche fuori del finestrino di un’auto, dico che qui vivono i poveri più eleganti del pianeta.

Non ti offendi e ridi. Apri quel grande sorriso bianco e mi guardi passare, assieme al tuo miliardo e 200 milioni di figli.

È questa tua flemma che mi ha subito sedotto. Dopo la prima sorpresa nel vedere tanti uomini in turbante acquattarsi lungo le tue strade per lo svuotamento mattutino delle loro pance, ho subito conosciuto quella grande calma nell’affrontare il caldo, lo smog, il traffico, il caos e suo fratello, lo stress.

Adesso sei Moderna, sei l’India Moderna. Eppure quel sorriso, sopra il tuo sari, mi sembra così antico. Più vivace di quello della Monna Lisa, ha un velo di energia in più in confronto a quello enigmatico della signora europea. Resiste a tutta questa modernità, quel flemmatico sorriso indiano che ondeggia mentre scuoti la testa per dirmi che mi stai ascoltando con attenzione, anche se non stai necessariamente condividendo ciò che ti dico.

Io ti ho amato da sempre. Da quand’ero un ragazzino delle elementari e leggevo Rudyard Kipling, invidiavo il viaggio di Phileas Fogg da Bombay a Calcutta e il ritornello di “Kalì, Kalì, Kalì, questa donna dovrà morir” di un antico   sceneggiato Rai mi bruciava nella testa, ridevo di Mowgli, mi commuovevo con Tagore e lasciavo che Gandhi, la Grande Anima, cambiasse per sempre il mio cuore.

Ti ho amato da sempre, eppure ti conosco di persona da così poco. Ho avuto paura di te, delle tue malattie, dello strazio della miseria, di minacce e fantasmi incerti che poi, una volta che mi hai abbracciato, non ho incontrato mai. Neanche vedendo un lebbroso con il viso coperto da un drappo che attraversava la strada nel quartiere di Triplikane a Chennai, né guardando un vecchio morire nei suoi stracci, sul ciglio della strada a Royapettah, mentre tentava di alzarsi e poi si lasciava andare.

Non ho trovato le paure che avevo, una volta arrivato in India. Ho trovato invece una grande serenità in un vortice di clacson, grida, gente che si spintona e che taglia la fila (aò! Sono cresciuto in Italia, credi che non me ne accorga?).

Sei moderna, adesso. Ma cosa ti sta succedendo, mamma India? Ho avuto la fortuna di conoscere il tuo aspetto migliore, quello che chiamano “l’India Rurale”. Questo vuol dire che mi sono risparmiato quegli elettroshock chiamati invece Mumbai e Delhi.

Kabir Bedi (sì, Sandokan! Sandokan!) mi ha detto che a Mumbai c’è sempre troppa confusione e che lì non riesce proprio a scrivere le sue memorie, cui sta cercando di lavorare. E il mio amico Sandeep gira per Delhi con la Bmw, disegna vestiti all’ultima moda e continua a ripetermi: «È qui che devi venire, è qui che ci si diverte». Proprio per questo non ci vado. E intanto Sandeep, poco più che trentenne, fugge con la fidanzata americana a fare una vacanza a Barcellona o va a sciare sull’Himalaya. È lui a incarnare il miracolo di quest’India moderna, trendy, disinvolta, non arrogante, ma sicura di sé.

Quando invece l’India moderna è quella che si ribella (e sorpassa, anche in questo, l’Italia) e riempie le strade di fratelli, mariti e figli che affrontano gli idranti e i manganelli per difendere sorelle, mogli e madri e chiedere serietà, vera giustizia, leggi vere contro gli stupratori e gli assassini di una ragazza, migliaia di persone pronte a farsi pestare per far evolvere un’intera nazione e forse il mondo.

Ti ho evitata, in queste grandi città. Sono andato a cercarti in provincia. Ti ho contemplato nel Sud, tra i templi sacri di Tiruvannamalai, girando a piedi nudi con un milione di pellegrini attorno alla montagna sacra di Arunachala cantando il mantra: “om namah shivaya”.

I giornali dicono che il BJP, il partito degli indù fondamentalisti, sia sempre più forte, che gli episodi di linciaggio nei confronti di cristiani e musulmani siano in aumento. Questo fa parte comunque del tuo essere moderna, a modo tuo. Questa è l’altra faccia della tua flemma. Sta arrivando anche qui l’anarchia globale di cui ha scritto Robert Kaplan? Ti stai africanizzando anche tu? Non ancora. Il livello di sicurezza, osservando le disparità economiche, la condensazione urbana e demografica e i sogni spacciati da tv e cartelloni, è ancora alto, considerato il contesto.

Ho parlato con tanti dei tuoi figli, in questi ultimi anni: il ricco industriale old money di Chennai, che conosce Bassano del Grappa molto meglio di me, come anche l’imprenditore chimico preoccupato per tutte le donne che si suicidano ancora a causa del sistema della dote. Spesso gli uomini si sposano solo per incassare la dote dai suoceri, poi ripudiano la moglie che, rovinata, preferisce farla finita.

Il direttore di un grande quotidiano dice che è convinto che andrà tutto bene. Un nostro comune amico, critico e giornalista, dice che si va verso l’inferno. I miei amici scrittori esprimono tutto questo nella speranza che la letteratura sia ancora in grado di sensibilizzare e quindi di unire tutti in uno sforzo di miglioramento, collettivo, umano. Perché qui il giornalismo sembra contare ancora, così come anche il parere degli intellettuali (sì, incredibile, qui esistono ancora).

Il mio amico Shekkar gira documentari naturalistici. Dice che tra poco gli spazi per gli animali selvatici sarà esaurito del tutto. Non ci pensa nessuno, non è prioritario. Prima bisogna scalare la graduatoria dentro ai G20, poi si penserà alle ranocchie, ai serpenti, agli uccelli, alle tigri e agli elefanti. Poi sarà tardi, dice Shekkar, la minaccia alle foreste è reale. E dopo la foresta, tocca all’acqua.

Mamma India, già si litiga per la tua acqua al confine con la Cina, lo sai. È lì che si combatterà la prossima guerra, dicono, nel nuovo assetto mondiale: nell’India Rurale.
Non quella che ho visto a Shekawati in Rajasthan, tra le ville di un’era di arricchimento dell’India avvenuta più di cento anni fa. Non a Mysore, grande cittadina del Karnataka non lontana da Bangalore, dove ho vissuto per un mese un’esistenza a misura d’uomo. E nemmeno nelle turistiche cittadine del Kerala come Kovalam, Varkala e tra le piantagione di tè di Munnar. Qui si muore già tanto di suicidi e alcolismo. Fa parte dello sviluppo anche questo, dicono.

A Tranquebar, altro villaggio di pescatori tamil di quest’India rurale dove approdo rientrando verso casa, incontro Francis, uno dei due direttori generali della catena di alberghi Neemrana, con hotel in tutta l’India, sedi che lui visita continuamente, sentendo il tuo polso, mamma India. È francese, abita qui da quarant’anni. A cena racconta dell’India di un tempo e di com’è mutata, delle tradizioni che si stanno perdendo, dell’invasione di telefonini, di internet e anche dei giovani europei (tantissimi italiani) che arrivano sempre più numerosi a Delhi, Calcutta, Mumbai per fare parte del Nuovo Secolo, per mettere le basi in una nazione dove si respira l’ottimismo della crescita, che sarà pure rallentata al 6,5% dal 8,4 su cui si attestava, ma che c’è: c’è!

E lo si vede anche qui, a Tranquebar, o meglio Taramghambadi – il “villaggio delle onde che cantano,” questo il significato della parola in tamil – dove nel 2004 le onde hanno cantato un requiem per alcune centinaia di pescatori, spazzati via per sempre assieme alle 180mila vittime dello tsunami. Eppure, grazie a un fondo di sviluppo congiunto tra una multinazionale europea e il governo indiano, qui hanno già ricostruito e avviato una serie d’imprese artigianali gestite dalle donne.

Mamma India, il tuo futuro ricomincia anche da qui. E dalla solerzia di un pescatore incontrato un pomeriggio sulla spiaggia di fronte a casa. Gli si è rotto il motore e non ha più acqua da bere. Torno in riva al mare con una bottiglia piena e biscotti. Vuole sapere se mi piace il Tamil Nadu. Certo che mi piace. Ed ecco che arriva il meccanico in motocicletta con un nuovo asse per il motore rotto. Il pescatore assetato mi racconta del suo villaggio, dove ora tutti hanno il peschereccio a motore, non più a remi e a vela. «Eh, lo so – gli dico – perché mi svegliate ogni mattina all’alba con i vostri scoppiettii». Il motore è pronto. Il pescatore ringrazia sorridendo e riprende a pescare, facendo su e giù con le sue reti, nel Golfo del Bengala.

Nuova India, sei inarrestabile.

 

(versione aggiornata della lettera pubblicata su “East”)

Carlo Pizzati

Scrittore, giornalista e docente universitario. Scrive per "Repubblica" e "La Stampa" dall'Asia. Il romanzo più recente è "Una linea lampeggiante all'orizzonte" (Baldini+Castoldi 2022). È stato a lungo inviato da New York, Città del Messico, Buenos Aires, Madrid e Chennai. Già autore di Report con Milena Gabanelli su Rai 3, ha condotto Omnibus su La7. Ha pubblicato dieci opere, tra romanzi, saggi, raccolte di racconti brevi e reportage scritti in italiano e in inglese. carlopizzati.com @carlopizzati - Pagina autore su Facebook - Il saggio più recente è "La Tigre e il Drone" (Marsilio 2020),