Italians, gud latin lovers, not gud fighters

“…Italians…sorry…yes Italians gud! Brava gente, buoni lavoratori, buoni musicisti, gud singers, buoni cantanti, famed latin lovers, yes…sorry…but not gud fighters (famosi latin lovers, scusi sa, ma niente buoni combattenti)”.

 

No, non è il virgolettato di un secondino di Trivandrum che parla ai due marines italiani che hanno ottenuto una licenza per tornare a casa a Natale (cauzione di 800 mila euro). Queste sono le parole del “povero impiegatuccio” del campo di concentramento dove il soldato italiano Diego, protagonista del romanzo “Latin Lovers” di Ottone Menato (Gastaldi Editore) passa 6 anni della sua prigionia vicino a Bangalore durante la seconda guerra mondiale. Forse gli indiani hanno ereditato dagli ex colonialisti britannici lo stesso sguardo sugli italiani.

 

Abito in India dall’inizio dell’anno ed è per me inevitabile dover dare una risposta quando mi viene chiesta la nazionalità. La prima e più comune reazione è: “Sonia Gandhi!” Che, per pura coincidenza, è originaria come me di una cittadina in provincia di Vicenza.

 

Poi i commenti si fanno anche più entusiasti (non vi illudete, la verità viene dopo). “Italy? Best in the heart,” esclama Riyaz, battendosi il petto con la mano aperta quando scopre che tipo di passaporto ho.

“Italiani, i migliori nel cuore,” dice, per spiegare che gli italiani che incontra nel suo negozio di anticaglie a Madurai sono i più vicini emotivamente agli indiani.

 

Il cassiere del negozio “Mercado” a Chennai, dove vado sempre ad acquistare un caffè macinato di marca italiana, non aveva ancora capito di dov’ero. E me l’ha chiesto: “Italy? Excellent country!” dice con gli occhi che gli luccicano. Paese addirittura “eccellente”.

Lo guardo dubbioso, non condividendo la sua analisi, ma, dopotutto, metà dei suoi prodotti, dal grana, al prosciutto, al caffè, sono importati dal Bel Paese. Ecco, queste sono le reazioni standard.

 

Ma ho voluto scavare un po’ di più, sentire cosa ne pensano alcuni indiani delle crisi che coinvolgono gli italiani in India. E capire come vedono la reazione che c’è stata in Italia e che i principali quotidiani indiani hanno riportato, comprese le foto dei vari striscioni e scritte appesi in Campidoglio e di fronte all’ambasciata indiana.

 

Chiedo a un’amica di Chennai cosa ne pensa della mobilitazione dell’estrema destra italiana per i marò e di quei cartelli che nelle manifestazioni a Roma dicono, ad esempio: “Smettiamola di giocare agli indiani e cowboy”.

“E loro sarebbero i cowboy?” ride lei, “beh, forse non dovrebbero sopravvalutarsi così, no?”

 

Il baciamano del diplomatico Steffan de Mistura a una ministro indiana qualche mese fa, riproposto in grandi foto a colori sulle prime pagine dei giornali, forse era un gesto che nelle intenzioni della Farnesina voleva comunicare la grande amicizia tra due Repubbliche che non solo condividono l’anno di nascita, ma che hanno anche delle carte Costituzionali e strutture parlamentari simili.

 

Ma una signora indiana commenta l’immagine con una risata: “A noi questo gesto sembra una sottomissione, un gesto ridicolo da Vecchia Europa che ricorda più i Vitelloni e la Dolce Vita che una trattativa tra diplomatici moderni.”

 

Quando si è venuto a sapere che sulle prime pagine dei giornali in Italia, invece, si scrive addirittura nei sottotitoli quanto importante sia che i militari italiani possono “mangiare cibo italiano,” allora le risate sono raddoppiate. “Ah, ecco, così non moriranno di fame, poverini,” questo è il commento ironico standard.

 

Forse ha ragione Salman Rushdie, penso, che insiste nel dire che gli indiani sono “italiani senza vino” (ma neanche tanto, visto che il vino, e anche bevibile, sta creando un vero mercato anche qui). “A volte gli indiani – scrive Rushdie – quando guardano i turisti italiani si sentono come se stessero guardando una sorta di specchio dove possono ammirarsi come in una traduzione.”

 

Non credo proprio. Siamo vicini, ci somigliamo, a volte ci piacciamo e forse ci capiamo. Ma in quanto a come gli italiani sono visti dagli indiani, penso piuttosto che, sotto sotto, ma non a grandi profondità, direi appena sotto la superficie, molti indiani la pensano piuttosto come quell’impiegatuccio del campo di prigionia per italiani nel romanzo di Ottone Menato.

 

Il libro racconta le avventure del soldato Diego che, per dimostrare a inglesi e indiani, e soprattutto a se stesso, che hanno torto, che gli italiani non sono soltanto famed latin lovers, continuava a cercare di evadere.

 

Venendo regolarmente riacciuffato.

(Pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”)

Carlo Pizzati

Scrittore, giornalista e docente universitario. Scrive per "Repubblica" e "La Stampa" dall'Asia. Il romanzo più recente è "Una linea lampeggiante all'orizzonte" (Baldini+Castoldi 2022). È stato a lungo inviato da New York, Città del Messico, Buenos Aires, Madrid e Chennai. Già autore di Report con Milena Gabanelli su Rai 3, ha condotto Omnibus su La7. Ha pubblicato dieci opere, tra romanzi, saggi, raccolte di racconti brevi e reportage scritti in italiano e in inglese. carlopizzati.com @carlopizzati - Pagina autore su Facebook - Il saggio più recente è "La Tigre e il Drone" (Marsilio 2020),