Da Pinocchio a Masterchef

Mi rendo conto – osservando alcuni rituali – che siamo passati da Pinocchio a Masterchef quasi senza rendercene conto. Cos’è Pinocchio se non il grande racconto della fame? Tutto l’orizzonte del romanzo mostra una situazione di profonda miseria, una fame popolare, diffusa e nera: bisogna aspettare di entrare nei padiglioni della fata per trovare un po’ di luce o accontentarci delle fantasie dello stesso Pinocchio, incantato davanti agli zecchini del campo dei miracoli. Cos’è invece Masterchef se non il grande racconto dell’abbondanza – il cibo c’è, non è più sognato, desiderato: basta entrare nel supermercato sotto casa per provare l’ebrezza del paese dei balocchi.

Mi rendo conto tra l’altro che nella struttura demografica – la piramide dell’età, cioè la distribuzione della popolazione per età e sesso – occupo il tratto più esteso, quello dai 45 anni ai 50 quindi, semplificando, il (mio) paese di Masterchef si caratterizza per bassa natalità e lunga aspettativa di vita e tanti 45/50enni mentre mio nonno, nato nel 1890, frequentava Pinocchio e una piramide diversa, triangolare e a base estesa: con popolazione giovane e bassa speranza di vita alla nascita e con pochi anziani. Per la precisione: l’Istat stima che i bambini nati nel 2011 possono sperare di vivere in media 82 anni, con un vantaggio di oltre 5 anni se a nascere sarà una femmina. Nel 1861 i bambini del Regno d’Italia avevano una speranza di vita che non superava i 29-30 anni.
E anche questa parte della storia riguarda il cibo: da Pinocchio a Masterchef, appunto.

Come ci siamo riusciti, e quando, in che periodo è avvenuto il passaggio?
L’animo umano, si sa, è parecchio influenzabile, e allora, a proposito di cibo, capita di sentire quello che si ricorda dei bei sapori di una volta – e le macine di pietra e i mulini, e il pane di ieri – e quindi sembra che non si stesse poi tanto male allora. Viceversa c’è quello che ci fa notare che, appunto, il pane di ieri era fatto di granturco malcotto, umido e rancido, riso e pasta di pessima qualità ecc. e che da allora siano in fase di progressivo (e qualitativo) avanzamento.
Per capire il percorso Pinocchio/Masterchef ci sarebbe bisogno di un’indagine più analitica: qual era la base di partenza? Pinocchio quante calorie aveva a disposizione?

Dunque, da dove cominciamo?
Si potrebbe partire – per poi seguire il lavoro svolto da Giovanni Vecchi e collaboratori (In ricchezza e in povertà, il reddito degli italiani dall’Unità) – dal Sommario delle statistiche storiche (pubblicate dall’Istat): indicano che già nel 1861 la disponibilità media calorica per abitante era di 2520 calorie giornaliere (senza contare quelle apportate dal vino). Questo dato contrasta con la visione pessimistica, alla Pinocchio insomma, e con le impressioni degli svariati commentatori ottocenteschi, per non parlare dei risultati delle belle (e dimenticate) inchieste sulla miseria: leggendole tutte è innegabile economisti, scienziati, fisiologi, igienisti giunsero tutti alle medesime conclusioni: miseria nera, alla Pinocchio. E allora? Che ne facciamo delle 2520 calorie? Probabile che ci sia un bias? O un conflitto di interessi? Del resto, l’intento delle commissioni era o non era quella di documentare le condizioni delle classi lavoratrici, con particolare a tensione a quei segmenti poveri? Quindi bisognava sollevare il problema, ottenere soldi dalla politica.

E invece, le stime del Sommario (per i primi cento anni di storia unitaria) seguono i criteri della contabilità nazionale, e non sono frutto di calcoli basati su osservazioni di singole (magari piccole) realtà locali, ma abbracciano un orizzonte più ampio: quel dato (2520 calorie) viene fuori dall’elaborazione delle statistiche nazionali sulla produzione agricola complessiva, nonché dalle poste provenienti dalla bilancia del commercio estero (si considerano gli alimenti prodotti e quelli che si importano). E niente da dire, sono più precise. Più precise sì, tuttavia non definitive, difatti il gruppo di lavoro di Giovanni Vecchi le ha considerate come (buona, ottima) base di partenza ma non punto d’arrivo.

Il dato singolo non basta, bisogna ragionarci su, porsi delle domande, e quest’ultime, se sono bene poste, complicano il percorso. Per esempio, tanto per cominciare, è necessario considerare la distribuzione delle risorse alimentari. Se ci sono elevati livelli di diseguaglianza nella distribuzione dei redditi è possibile che una fascia della popolazione abbia (possa permettersi) una buona disponibilità calorica, un’altra sia sottonutrita: magari qualcuno si divertiva già con Masterchef e altri leggevano Pinocchio. Insomma ci vogliono sia i valori medi delle disponibilità alimentari (le calorie disponibili) sia (soprattutto) la distribuzione della suddetta disponibilità fra le vari classi della popolazione.
Prima di seguire le conclusioni della bella indagine, Giovanni Vecchi è interessante studiare la metodologia adottata per superare specifiche questione tecniche e il lavoro è accompagnato da interessanti appendici teoriche e comprensibili anche per i non addetti ai lavori. Si sa, i problemi metodologici non fanno storytelling ma in fondo cosa importa, siamo certo capaci di seguire un po’ di numeri, in più capire come si arrivare a ottenere un dato specifico è l’altra parte della storia, quella più nascosta, ma non meno (narrativamente) interessante.

Prima tappa: costruire una serie storica delle calorie disponibili in media alla popolazione italiana in ciascuno dei 150 anni. Questo richiede il raccordo delle serie prodotte da altri studiosi in vari sottoperiodi. Sembra facile ma il calcolo si complica da subito perché c’è da affrontare questa questione: le calorie disponibili coincidono con quelle effettivamente ingerite? Eh no, purtroppo non sono la stessa cosa! Non solo le calorie disponibili non coincidono con quelle ingerite, ma le calorie ingerite possono essere diverse da quelle assimilate. Anzi, per valutare l’eventuale stato di sottonutrizione di una persona o di una collettività, più o meno ampia, quello che conta è proprio il dato relativo alle calorie assimilate. La quantità di calorie assimilate dipende dalla a) consistenza degli alimenti; b) da come vengono cucinati; c) dal contenuto di fibre. Se vi mangiate un uovo sodo ne assimilate il 90%, uno crudo soltanto il 51%.

Il conteggio richiederebbe esami di laboratorio e non solo: bisognerebbe capire come venivano trattati i cibi (e di che qualità fossero) prima di essere mangiati e questo per i 150 anni di storia nazionale. Non si può fare. Possiamo allora limitare il calcolo solo a quelle ingerite? Vediamo: si potrebbe stimare le quantità di cibo acquistate dalle famiglia? Sì, utilizzando i dati campionari, che però sono presenti solo dalla fine del Novecento. Inoltre a causa degli scarti alimentari o del deterioramento degli alimenti, non possiamo passare con accuratezza dalla stima delle quantità di cibi (e delle calorie) acquistate dalle famiglie a quelle che hanno effettivamente ingerito. Troppo poco per impostare una serie presentabile. E niente, bisogna limitare il calcolo alle sole calorie disponibili, magari cercando poi di ricavare così quelle ingerite.

La stima è stata dunque fatta raccordando, integrando e migliorando tutte le serie di ultima generazione. Il Sommario di statistiche storiche dell’Istat, soprattutto per i primi anni del Regno, non era accompagnato da un’adeguata descrizione dei metodi utilizzati per il calcolo, e dopo tre anni dalla loro prima pubblicazione ci fu già una correzione (Benedetto Barbieri, direttore dell’istituto). Quindi sono state prese in considerazione le stime di Giovanni Federico, quelle Istat per il periodo 1912/1960, e quelle della FAO (il Food Balance Sheets) dal 1961 ad oggi.
Quello che viene fuori è che la disponibilità media delle calorie già dai tempi dell’Unità era abbastanza alta: siamo intorno alle 2500 calorie. Il solo calcolo delle calorie disponibili richiede molti passaggi: produzione nazionale di ciascun alimento (quante tonnellate di pomodori, di grano ecc), a cui aggiungere la valutazione delle variazioni delle scorte (la differenza tra le giacenze iniziali e quelle finali, per ciascuno alimento). Poi bisogna sottrarre le esportazioni e aggiungere le importazioni, e sottrarre la quantità del cibo che non aveva una destinazione alimentare (semina, alimentazione animale, cibo deteriorato). Tutto per un periodo di 150 anni.

Dato per scontato un sistematico errore, soprattutto quando si va indietro nel tempo, c’è da porsi un’altra domanda: ora che abbiamo calcolato le calorie disponibili, siamo sicuri che queste fossero sufficienti per vivere? Insomma di che calorie stiamo parlando? Ci vuole un dato qualitativo.
Cioè, per seguire la definizione di Robert Fogel e capire se una persona si nutre adeguatamente, è necessario considerare non solo delle calorie disponibili ma anche quelle richieste dall’organismo per svolgere, oltre al metabolismo basale, i compiti quotidiani. Il dato di 2520 calorie può essere solo indicativo bisogna stabilire il fabbisogno energetico: bastano 2520 per arare un campo? Per abbattere una quercia? Sono sufficienti per affrontare una gravidanza e in alcuni momenti particolari, l’adolescenza?

Le ricerche sul fabbisogno energetiche in Italia sono rare, soprattutto sono del tutto assenti stime che dimostrino come (e se) il fabbisogno energetico sia mutano nel tempo. La piramide demografia (quella che mi vede per età, tristemente, in seconda posizione) è un buon esempio: se la quota di bambini sul totale della popolazione diminuisce aumenta il fabbisogno calorico medio della popolazione. Per semplificare, nel 1872 c’erano tanti bambini e pochi anziani: la quota di bambine di età compressa tra 0 e 4 era del 6% (quasi simile ai bambini maschi), mentre nel 2007 di poco superiore al 2%. E se cambia la composizione della forza lavoro? E se si passa dall’attività agricola a quella industriale e poi crescono le persone impiegate nei servizi?

Sappiamo da appositi coefficienti messi a punto da nutrizionisti che il fabbisogno energetico per abbattere una quercia è di dieci volte superiore a quello necessario per suonare il flauto (Fao/Who/Unu 2004). Nel 1861 il 59% di chi lavorava faceva il contadino (mio nonno e tutti, ma proprio tutti i miei lontani parenti, avranno abbattuto querce ed erano affamati, secchi, nervosi e nodosi), mentre nel 2001 siamo vicini al 6%: è cambiata la giornata lavorativa e anche l’intensità del lavoro. Visti e considerati questi cambiamenti, il fabbisogno energetico è quindi diminuito.

Utilizzando i coefficienti e i dati sulla struttura della popolazione (cioè quanti come mio nonno? quanti suonavano il flauto?) e i dati sulla demografia, Giovanni Vecchi – questa è la terza tappa del nostro calcolo – ha stimato che nel 1861 il fabbisogno energetico fosse di 2300 calorie per persona, oggi ne bastano 2000 (io cerco di mantenermi sulle 1800, ma è un altro discorso). Queste stime sono in accordo con quelle ottenute dalla Fao con un procedimento indipendente da quello usato da Vecchi, che indicano un fabbisogno medio di 1960 calorie nel triennio 2004/2006 (stime che avevo letto a suo tempo e da allora mi sono orientato sulle 1800 giornaliere, ma appunto, è un altro discorso).
Quindi gli italiani, in media, erano ben nutriti. Sarebbe ora – come quarta tappa – da capire chi, e quanti, stavano sotto la media.

Di nuovo, ci vogliono le calorie ingerite: come dicevamo le calorie disponibili non sono uguali a quelle ingerite, e quest’ultime non sono sovrapponibili a quelle assimilate: è tutto molto complicato.
Non finisce qui: per stimare la quantità di popolazione che non poteva permettersi un’adeguata nutrizione bisogna anche conoscere le calorie consumate dalle diverse fasce di popolazione, e purtroppo nel caso dell’Italia mancano i dati sia per l’Ottocento che per oggi. Insomma considerate tutte queste difficoltà, come si procede? Si è costruito un database di oltre 5.000 osservazioni relative ai paesi di tutto il mondo, sulla base dei quali si è stimata (econometricamente) la relazione tra la dispersione delle calorie e il livello del Pil per abitante. Così si è ottenuto un modello con cui stimare la variabilità (per amore della precisione, la deviazione standard) delle calorie disponibili in Italia sulla base dei livelli del Pil per abitante, osservata in tutto il periodo della storia unitaria .

Questa è la metodologia. Ora, i risultati, riassunti e qui semplificati mostrano un percorso tra Pinocchio e Masterchef diviso in cinque punti. All’unità d’Italia e con molta probabilità nel decennio successivo un italiano su due (forse, in alcuni casi, due su tre) non disponeva di alimentazioni adeguata, e questo riconcilia i numeri con le impressioni, cioè con le (dimenticate) inchieste sulla miseria. Una parte della popolazione era sottonutrita, e anche se non si riesce a stimare precisamente in quanti lo fossero, si può confrontare i risultati con altri dati, quelli ottenuti nel 1882 dal ministero dell’Agricoltura, industria e commercio (Maic): Notizie intorno alla condizione dell’agricoltura negli anni 1878-79. Ci dicono che solo poche famiglie potevano disporre di molte calorie al giorno, mentre c’era un numero ampio di famiglie che consumavano poche calorie, circa un/terzo. È vero che in tanti considerano i risultati di quest’inchiesta lacunosi e sommari (troppo esiguo il campione di famiglie coinvolte), ma si tratta comunque di dati ottenuti sul campo e non di impressioni fuggevoli (se proprio non ci accontentiamo delle impressioni fuggevoli)

Per tutta l’età liberale e fino alla prima metà degli anni Venti il regime alimentare della popolazione migliora e la quantità di persone sottonutrite decresce sensibilmente. Solo un italiano su cinque si può definire sottonutrito. Arriva il fascismo. Le politiche autarchiche, la Grande Crisi e lo scoppio della Seconda guerra mondiale fecero tornare indietro l’Italia di una secolo. Dal biennio 1926/27 aumenta considerevolmente la quota di sottonutrizione, tanto che nel 1933, di nuovo come nell’Ottocento, un italiano su tre risulta privo di adeguata alimentazione.

Dopo la Seconda guerra mondiale le percentuali di sottonutrizione sono nell’ordine del 50/60%, dice l’Inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla 1951/52 curata da Vera Cao Pinna: una percentuale delle famiglie italiane compresa tra il 44 e 62% presenta un regime alimentare insoddisfacente (misurato sulla base dei consumi di carne, zucchero e vino). Nei decenni successivi la sottonutrizione crolla: nuove politiche economiche, la riapertura delle relazione con l’estero, l’aumento dl reddito pro capite, tutto questo fu associato a una disponibilità di calorie di cui la popolazione aveva bisogno per vivere, lavorare (e infine godersi la vita). Aumenta la produttività per ettaro (molti miei parenti, da secoli poveri contadini, in quegli anni cominciano a usare concimi, agrofarmaci, diserbanti, miglioramento genetico, cambiano i piani colturali, guadagnano di più e come prima cosa tolgono la stalla dalla casa e si rifanno il bagno e la cucina: loro erano contenti, io borghese – letti due o tre libri e saggiati i loro gusti culturali – li chiamavo cafoni arricchiti: non se lo meritavano).

E insomma nell’arco di un ventennio, dal 1950 al 1970, Pinocchio cede definitivamente il posto a Masterchef: dalla fame all’abbondanza. È cambiata anche la qualità e la composizione della dieta, si mangia meglio e così (l’appetito vien mangiando) si ragiona tanto sul cibo. E parlando, analizzando ristoranti e le proposte di Slow Food, spesso discutiamo e litighiamo sul bio e sull’agricoltura convenzionale, ma alla fine ci sediamo sempre a tavola, e mangiamo, mangiamo abbastanza. Nono sono solo impressioni fugaci, l’Italia è in vetta alla classifica dei paesi che dispongono del maggior numero di calorie pro capite. Siamo secondi solo agli Stati Uniti e disponiamo il 30% in più delle calorie dei giapponesi; siamo superiori a tedeschi, francesi, spagnoli, inglesi e svedesi. Dunque, bio e convenzionali, slowfoddisti e non, decrescisti e non, la verità è che noi tutti stiamo ingrassando, e se nel 1861 uno su due non mangiava in maniera adeguata, oggi, secondo i dati Istat del 2010, un uomo su due è in sovrappeso, mentre per le donne (e anche i bambini) il rapporto è uno a tre.

Il saggio di Giovanni Vecchi e collaboratori sottolinea alla fine del capitolo che sì, è vero, siamo nel paese dei balocchi, o di Masterchef, ma anche che dagli ultimi trent’anni una fascia non trascurabile della popolazione non dispone di una nutrizione adeguata. Per amore della citazione il saggio finisce così: «un problema enorme per pochi, ma piccolo per molti, evidentemente».

In ricchezza e in povertà, il benessere degli italiani dall’Unità a oggi (il Mulino) di Giovanni Vecchi, tenta di rispondere (e lo fa in maniera esaustiva) alla domanda (non banale): da dove siamo partiti noi italiani quando abbiamo cambiato pericolosamente strada, e dove possiamo o rischiamo di andare. Il libro è diviso in tre parti e vari capitoli: Le condizioni di vita degli Italiani: nutrizione, statura, salute, lavoro minorile, istruzione. Crescita, diseguaglianza e povertà: reddito, diseguaglianza, povertà, vulnerabilità. Strumenti: bilanci di famiglia, costo della vita. È un saggio interessantissimo e molto chiaro che ha alle spalle un robusto lavoro di ricerca fondato su vari dati e statistiche qui integrati e raccordate per la prima volta. Il capitolo, qui riassunto, nutrizione, è scritto da Giovanni Vecchi e Martina Sorrentino.

Fuga dalla fame. Europa, America e Terzo Mondo (1700-2100) di Robert Fogel racconta come, attraverso quali strumenti, scoperte e innovazioni, abbiamo sconfitto le tre parole che hanno funestato il mondo per gran parte della sua storia: fame, carestia e malattie. C’è uno stretto rapporto tra buona qualità dell’alimentazione e prosperità di una società, ma allo stesso tempo la fuga dalla fame comporta nuovi costi che bisogna, con strumenti nuovi, imparare a gestire.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.