Buche riflessive

Venti, trenta all’ora al massimo. Ormai vado più veloce in bicicletta che sulla moto. I riflessi, la vecchiaia ma soprattutto le buche di Roma. Mi mettono veramente paura. Buche, rotaie di tram, cordoli. Sto pelo pelo, con l’acceleratore al minimo. Scanso le buche e penso sempre a una frase di Nenni: «una cosa rimpiango nella vita, di aver trascurato delle cose che si potevano fare – di modeste dimensioni ma utili – nell’attesa di qualcosa di bellissimo, formidabile, ma impossibile». In fondo riparare una buca è una di quelle cose piccole e tanto utili. Ci lamentiamo, il cambiamento climatico, le alluvioni. Vero! sembra strano, ma sono eventi che possono essere tenuti a bada da semplici riparazioni: togli la ghiaia accumulata in un argine (non è facile, la legge Galasso lo impedisce), pulisci un alveo, sistema una canaletta di bonifica, riprendi una piccola frana. In gergo tecnico queste operazioni si chiamano: manutenzione ordinaria (lo so perché mi occupo di calamità naturali in agricoltura, al Ministero delle politiche agricole, appunto).

Nemmeno straordinaria o eccezionale. Ordinaria. Ma se è ordinaria, cioè piccola, di basso costo, perché in Italia nessuno la pratica? L’acqua in eccesso, i tombini intasati, formano buche. Con la moto a Roma, se ci finisci dentro, ti fai male. Venti, trenta all’ora. Pelo pelo. Ci metto tempo per andare da una parte all’altra. Sono vecchio, ho ancora l’Ishuffle, devo cliccare due volte per andare avanti con i brani. Una mano guido, un’altra clicco. Mi metto paura. Della vecchiaia. E mi consolo sempre ascoltando Time is on my side, Rolling Stone, versione live, Hampton 1981. Mick Jagger la canta indossando un enorme cappello bianco.

La struttura narrativa moderna, è un vero problema. È ancora limitata dal modello a tre atti, primo atto il personaggio dichiara il suo obiettivo, per esempio, voglio salvare la collina da una frana, secondo atto: oddio! mi sa che l’operazione è complicata, quasi quasi rinuncio. Poi ci ripenso, ma sì, ce la posso fare, rivedo le mie convinzioni in materia di idraulica e bonifica e scopro un nuovo modo di arginare la frana. Terzo atto risolvo il conflitto. Non c’è dubbio che l’atto più difficile è il secondo. Il primo è una dichiarazione di intenti: ci penso io, bonifico il territorio! ti amerò tutta la vita! un milione di posti di lavoro! Il terzo è facile, a conflitto risolto, ci beviamo un caffè. Il secondo è duro. Subentra quando le belle dichiarazioni franano, quando alle nostre parole non seguono i fatti. Dice sempre Mamet, il secondo atto comincia quando, dopo aver dichiarato che volevi bonificare la palude, ti trovi immerso nella melma fino al collo. E ci sono due modi per risolverlo. Uno magico e facile: invochi l’arrivo della cavalleria, facile, no? Che so, scopri di avere la forza in te. Ma è un modo per tornare rapidamente al primo atto, un’altra dichiarazione di intenti con te stesso. Oppure, piano piano analizzi, valuti, capisci quali sono stati i tuoi errori, quei passi avventati, e con fatica e impegno ne esci fuori. Un buon secondo atto esige comportamenti ordinari, piccole cose ma utili. Vabbè, l’Italia ha un buon primo atto: belle le nostre dichiarazioni, e ci credo, c’è tutta una scuola di retorica alle spalle. Con il terzo atto pure ce la caviamo, a tarallucci e vino, a pajata e polenta, anche qui tutta una tradizione… Ci manca il secondo atto. Come dice Berardinelli: ci manda la mediocrità, la buona tenuta, la coscienziosa esecuzione di atti comuni e medi, siamo troppo creativi in cose che richiederebbero molto meno, facciamo sempre teatro, inventiamo cavilli e scorciatoie, non ce ne sarebbe bisogno. Insomma il secondo atto è difficile, perché affronta un tema importante: come rialzarsi una volta caduti, come, visto che si è finiti in una buca, al buio, affrontare il dolore? Niente rimozioni, dolore: a noi due.

La suddetta era una digressione. Volevo dire – ma capitemi, sto in moto, a filo di acceleratore, piano piano e il tempo è dalla mia parte – che il modello a tre atti, per quanto bello e interessante risulta un po’ arcaico. Necessita di una trama che costringe il personaggio a reagire agli eventi. Ma io sto sulla Gianicolense, sto andando pure a pagare una cartella esattoriale (ho visto i servizi di piazza pulita su Equitalia, e mi sono spaventato). Cartella più buche. Che ci inventiamo? Quale trama avventurosa potrei mai pensare per oggi? Quale trama accesa e alata il mio personaggio potrebbe cavalcare? Mah? Però un’alternativa è possibile: basta concentrarsi sui personaggi. Anche se ordinari, comuni e medi, noi personaggi moderni abbiamo una trama cerebrale interessante, basta esaminare le nostre dinamiche, come pensiamo? Come vi muoviamo? Che modelli abbiamo, cosa succede se cadiamo un una buca? Il tempo è dalla mia parte. Se è vero, significa che possono procedere avanti e indietro. Una trama temporale (intima) definisce meglio il personaggio. Meglio di qualsiasi avventura.

Per esempio, mica ho guidato la moto sempre così. Oh, io ho fatto scuola a Caserta. A 14 anni, già andavo su una ruota. Bravissimo. Tutto il corso Trieste su una ruota. Alzavo Vespe, Ciao, Bravo, Boxer, pure i Garelli. Anche il semaforo rosso rispettavo. In equilibrio su una ruota finché non scattava il verde. Ho vinto un sacco di gare. E ho fatto cross per un periodo. Truccavo le moto, da 50cc a 150cc, un po’ di rodaggio e via, impennavo anche in quarta. Manualità, tecnica, sistemavo tutto. Mai avrei pensato che con il tempo nemmeno un giravite in mano avrei saputo tenere (come odio le caldaie, si è rotta di nuovo).

Come si cambia. È una buca che mi ha cambiato. Una doppia buca. Al campo da cross di via Ferrarecce, a Caserta, c’era una discesa veramente ripida. Una rampa di lancio simile a quella di un trampolino da sci. Ero adolescente. Avevo un Cagiva. E c’era anche una ragazza che mi piaceva, Valentina. Bionda, riccia. Simpatica, spigliata. Veramente bella. Andavamo insieme in bicicletta, soprattutto di domenica sera, quando la luce si abbruma e comincia a mancarti il respiro e già pensi al lunedì, alla scuola. La sensazione in fondo non mi ha mai abbandonato, guarda caso scrivo quasi sempre a quest’ora. Il sabato del villaggio, no. Che pochi saggisti hanno capito, tranne il nostro grande cantante lirico, Carmelo Bene. Sentite come attacca Garzoncello scherzoso. Come alza il tono. Come spinge, alza la moto, impenna. Del resto, quando la luce si abbruma, un attimo prima, devi gridare. Godi fanciullo mio, stato soave. Io andavo con Valentina in bicicletta. Caserta, tanti anni fa, 1982.

Ma avevo paura, sia di fare la discesa sia di fare la dichiarazione a Valentina – all’epoca si usava, dichiararsi, con belle parole e buoni, tanti buoni intenti. Una domenica al campo da cross, uno mi spiega come devo saltare, a che velocità, come devo atterrare e scendere. Dai, coraggio. L’aria più avanti, a pochi passi da me, già si anneriva, si avvolgeva attorno agli alberi, si poteva toccare la bruma che saliva alla conquista del cielo e io andai, ma si, vai, verso il buio. Staccai male, atterrai su un buca e caddi di schiena. Sapete com’è, no? l’aria che va via dai polmoni, il dolore, cerchi di respirare, ma invano, tutto diventa nero, che vuoi gridare, un rantolo, la morte. Poi l’aria ritorna. Ma il dolore resta. Gli amici che ridono, tutti intorno a te. Non vuoi più alzarti, è finita qui. Basta. Poi qualcuno ti solleva, dai, coraggio, torna subito sulla moto, riprovaci. Si va bene, domani. Mi restò quel senso di dolore alla schiena, da buca non prevista, da passi falsi – e non sarà mica un caso che sono caduto tre volte con la moto, tutte e tre le volte su una buca romana, mi sono slogato spalla sinistra, rotto il naso e incrinato una costola. E dire che facevo cross. Tendiamo a ripetere gli errori, dicono gli psicanalisti. Ma allora per colpa della caduta, quella domenica pensai di scappare da Valentina, sì va bene, domenica in stato di avanzata putrefazione, ma questa volta ce la posso fare, non può andare sempre male: dichiarazione. Passeggiai con Valentina due ore, su e giù per via Gemito, in due ore le feci una dichiarazione poetica, piena di belle parole. Cosa mi rispose al termine di questa impresa? No! Non se la sentiva. Buca, insomma, la seconda nell’arco di poche ore. Dolore, senso di frustrazione, rabbia, e forte anche. All’epoca balbettavo, non controllavo il respiro, all’improvviso sentivo che andava via, come quando ero caduto di schiena. Ora sono quasi dislessico e disgrafico, faccio un sacco di refusi, non vedo gli errori e devo ripassarci più volte, però, in compenso, appunto, non balbetto più. Tornando a noi, dopo pochi giorni Valentina si mise con Roberto, un mio compagno di scuola, uno di pochissime parole, tutto fatti. Ci rimasi male, ma siccome mi trovavo nella buca cominciai a osservare Roberto, aveva la stessa età mia, come faceva? Che movimenti? Che corde toccava?

I personaggi moderni vivono un tempo narrativo allucinato. Troppi stimoli, i neuroni devono collegare i pensieri, andare avanti e indietro nel tempo, insomma si galleggia, capite bene che una trama, pur bella e avventurosa, che imbrigli tutto questo, beh è una forzatura. Siamo confusi da un eccesso di emozioni temporali. Infatti, due anni fa, a Caserta, rincontro Valentina. Va-le-nti-na! le dico, ma ciao! Che cazzo! Come stai? Andiamo a mangiare insieme, rievochiamo i vecchi tempi e glielo dico: ma scusa, ma perché mi dicesti di no? Non ti piacevo? La domenica sera, la bicicletta, quel senso di complicità. Ti piaceva più Roberto? La risposta? Certo che mi piacevi! tanto! ma non ci hai provato abbastanza. Eh? Come? Che? Due ore di dichiarazione? Certo, insisteva lei, dovevi provarci di più. Ti ho detto di no, per metterti alla prova. Se ci riprovavi… Col cazzo, Valentina – mi ero innervosito – Roberto allora? tre minuti e vi siete baciati. Ma che c’entra, dice lei, con lui non era niente, due settimane ci sono stata, con te poteva essere per sempre. Come un diamante, ti ricordi: shine on, you crazy diamond. Ti ricordi la bicicletta? Le fughe di domenica, quella casetta per bambini al parco, dove andavamo io e te, e leggevamo fumetti di Topolino? beh, per me quello era importante, era assoluto, ma tu non c’hai creduto. Non c’ho creduto? Due ore di dichiarazione, no, dico, insisto. E non per questo senso di assoluto ci abbiamo rinunciato? E comunque, in questi anni, per contrasto, dalla mia buca, ho sviluppato l’istinto che aveva Roberto, tu passi e io colgo un segno, batti e io ribatto. Velocità, precisione, attenzione costante, manutenzione, costi e manutenzione costi. Pensavo di non prendere più buche. Invece.

Memoria. Parla, succedono le età, succedono le età meravigliose, canta Lindo Ferretti, in Esco. Ma del resto la conversazione con Valentina non mi sorprese più di tanto. Un po’ avevo capito: alcune donne, no, quasi tutte le donne, amano l’assoluto, è un’idea, un orizzonte difficile da abbandonare, per questo sono suscettibili su quel versante, belle parole, bei gesti. E come ci diamo da fare per accontentarle. Questa continua dimostrazione che tutti i vestiti che tessiamo sono su loro misura. Capisco. Ma cadiamo alla fine. La tela si disfa. Perché spesso l’effetto è quello di costruire qualcosa e domandarsi ogni minuto: è questo il palazzo principesco che volevamo io e te? È questo? Parliamo abbastanza di questo? Di come lo stiamo costruendo, dico. È vero! se solo si accorgono che c’è una piccola crepa, tentato, prima di noi, di porre rimedio, ma ci mettono tanto di quell’afflato che poi succede che la crepa si può aggiustare solo a modo loro. Scopri che c’è un’idea assoluta: come sistemare le crepe secondo l’universo femminile. Spesso non coincidono i modi. E penso a Nenni: «una cosa rimpiango nella vita, di aver trascurato delle cose che si potevano fare – di modeste dimensioni ma utili – nell’attesa di qualcosa di bellissimo, formidabile, ma impossibile».

Ci sono tre modi di vivere secondo Nietzsche. Quello che costruisce i castelli sulla sabbia. Bellissimi, pieni di ornamenti, e poi, nemmeno il tempo di osservarli, arriva l’onda e li distrugge. E quello pensa: ah sì? Esiste un mondo cattivo che distrugge la mia creazione? Non costruisco più niente, mi ritiro. Poi c’è quell’altro che dice: guarda, lo so che arriva l’onda, quindi, questo castello, che lo costruisco a fare? L’uomo tragico, secondo Nietzsche, costruisce lo stesso i castelli, sapendo che prima o poi l’onda li butta giù. Non so, sarà un senso di limitazione, che appartiene al mio genere, ma i castelli li voglio costruire anche se so che non reggeranno. Lo spazio del gioco, diceva qualcuno, Winnicot, credo. Si vive più intensamente sapendo che prima o poi il castello crolla. È un assoluto relativo, confinato in una buca. Insomma, non fatemi fare progetti prima del tempo, a me basta solo capire se tu vuoi giocare. Un segno, una piccola intesa, una battuta. Come Roberto, niente ore e ore di conversazione, tanto alla fine, a forza di parlare, uno si capisce, ma io preferisco intuire, come si dice: scatta la chimica, un assoluto a suo modo. E cosa? Beh, cosa! Che abbiamo una buca in comune. La vedo così. Egoismo? Mancanza di progettualità. Non so, anzi lo so, sì, è così. Ma il guaio è che sempre di egoismo si tratta, chi cerca l’assoluto che deve rendere perfetto ogni momento e non esistono reazioni perfette.  È necessario impiegare una particolare energia, piena di ottani. A volte ce l’ho in serbatoio, altre volte scarseggia. E comunque, benzina o meno, a me capita di cadere, a prescindere dai progetti, anche quando la strada era diritta, la visibilità buona. E però, se ci penso: ho imparato a godermi le buche. Incredibile. Posso trasformare, quando va bene, il dolore in conoscenza (in amore? Mah?)

Ci sono dei momenti particolari, quando, magari, sazio, perché hai mangiato un bombolone alla crema, in un albergo, su una spiaggia, in una stanza, in macchina, in una casetta di legno per bambini, nascosti, barricati, dopo un orgasmo lancinante, ti pieghi in due e ti rannicchi. Tutto cambia. Sei ora in una buca, senza fiato, al buio. La testa, la tua testa comincia a fluttuare. Come stare sott’acqua, apri le braccia e risali, lentamente, e come un volo, ma all’interno della buca. E risalendo allunghi una mano per prendere quella della tua compagna. Salire insieme è bellissimo e non c’è idea di assoluto che valga o che sciupi il momento per estatico confronto. A volte vi fermate, entrambi, un attimo a osservare la buca, perché scoprite una cosa: quella buca è vostra, è assolutamente vostra. Non ci sono cazzi. Su quelle pareti ci sono indizi della vostra storia, le volte che siete caduti, quando siete rimasti senza fiato, quando di domenica l’aria diventa scura e c’è poco da fare: godi fanciullo mio stato soave… ma la tua festa che anco tardi a venir non ti sia grave.  È la risalita che ti permette di aggiustare le frane, per così dire. Cosa chiedo in quei momenti? Quando il tempo è dalla mia parte, per dirla come Mick Jagger. Forse, di trasformare il trauma in dolore. Tutto qui, il trauma è personale, e non condivisibile, il dolore può essere condiviso. Sarà per questo che cerco le buche? Per risalire in compagnia, è questa la mia aspirazione? Condividere la risalita. Poi su, alla luce, superata la galleria, ci dobbiamo separare. Alla prossima. E non smetterò mai di ringraziare le donne che sanno farmi precipitare (con una nenia, una canzone, una risata, un gesto), cioè teletrasportarmi nella buca.

Con il tempo e con le buche prese preferisco Cristina Donà. No, mi piace anche lei, è molto bella, e quando canta acquista una sensualità particolare, però, dico, quella sua canzone, Stelle buone versione unplugged, intendo, alla chitarra Francesco Garolfi, eccezionale:

Mio amore, ripiegate le labbra
e tornati al colore di prima
guardo fuori ed è l’alba
come fuggono le ore da qui
e ci dobbiamo salutare
c’è un’altra giornata d’amore da preparare

Ce la possiamo fare, a osservare insieme le buche, a risalire, anche se con tempi diversi, e salutarci, ci sono altre giornate d’amore, in senso lato, dico. È vero, la specie deve andare avanti e noi – lo sanno anche i neuroscienziati – ci crediamo nell’assoluto. È un lascito dell’evoluzione. Se dobbiamo fare un figlio, è necessario credere che faremo un lungo tratto di strada insieme. Ma la vita ci delude, e ci delude in proporzione crescente rispetto al nostro concetto di assoluto. Ma possiamo trasformare la delusione in creatività, e se siamo caduti, tanto vale dare un’occhiata alla buca. I tempi cambiano. I ruoli, quelli maschili e femminili, anche. Eh, questi personaggi moderni. Difficili da imbrigliare in una trama. Non si può generalizzare, per me, risalire dalle buche è un buon secondo atto, mi permette di osservare la superficie scrostata delle mie parole, le impurità e le scorie e se chiedo di condividerle e perché l’unica bugia che posso dire è che il tempo sia dalla mia parte. Non è infinito purtroppo. E i sentimenti c’entrano? Le dichiarazioni di due ore che non bastano e che vorremmo continuassero per sempre? Qui tutto crolla, sarà che a volte crolla per l’effetto roboante delle dichiarazioni d’amore? Troppo impegnati a desiderare l’assoluto che mettiamo il freno alla risalita? Si tratta di considerare due punti di vista: i nostri sogni non sono migliori di noi. Sognare l’assoluto non ci rende migliori. E non siamo della stessa materia di cui son fatti i sogni. Questo è certo. Si tratta, quindi, di lavorare su questo territorio brutalmente materiale? C’entrano i sentimenti. Sono l’unico strumento che abbiamo per osservare noi mentre ci muoviamo nel mondo. Meglio tenerli alti? Come in Italia. Io mica lo so cosa cerco dalla vita, ma invece della felicità, mi sembra che abbia maggiori diritti l’inquietudine. Porta diritto alla conoscenza. Non so, forse un giorno otterrò quello che voglio, ma temo sarà molto in là a venire, e fino ad allora i miei movimenti si restringeranno, assomiglieranno a quelli di un navigatore a vista, attento al vento, gli rendo grazie perchè mi chiarisce, per un momento, il percorso, e gli errori, quelli naturali e quelli specifici.

Ps: All’Equitalia c’era un bordello. E non c’è nessun dubbio che a volte, questi, si comportano male e prendono più del dovuto. Ma pensando alle buche che avevo piano piano scansato, ai sentimenti, alle donne che cantano, mi sono venute in mente le parole di quel cittadino, Giuliano Melani, che ha comprato una pagina del Corriere per dire che il debito l’abbiamo fatto noi, quella buca, ci riguarda: «Quando non abbiamo pagato le giuste imposte, quando ci siamo riempiti di medicinali che abbiamo regolarmente buttato, quando abbiamo eletto persone inadeguate, quando non ci siamo messi a disposizione». Ma «vivaddio siamo stati anche liberi», «e siamo speciali, anche se ora ci sentiamo invecchiati» e c’è «una sola cosa da fare subito per far tornare a salire le nostre azioni e i nostri beni: comprare il debito. Saremo ricompensati mille volte di quel poco che non abbiamo nemmeno speso». Vero, è andata così, sospetto che per quanto mi riguarda ero troppo impegnato a spararle grosse, per conquistare le mie Valentine. In senso lato, naturalmente.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.