Basta che arrivi il 44

David Mamet (drammaturgo, sceneggiatore e regista) spiega in una sua lezione agli studenti: “non diciamo mai: ho aspettato un autobus”, punto. Non lo facciamo perché abbiamo bisogno di drammatizzare, fa parte della nostra natura, chi ci ascolterebbe sennò? È necessario alzare il tono: ho aspettato l’autobus per venti minuti! Oppure, sapessi cosa mi è successo mentre aspettavo l’autobus!

Pensavo questo, perché la moto s’era scassata e m’ero detto, vabbè, prendo la bici, certo devo andare lontano, ma sono in forma. E invece: era la bici a non essere in forma: bucata.

Punctured bicycle/On a hillside  desolate/Will nature make a me of me yet?

Niente panico. Autobus. Il 44. Poi piazza Venezia, un autobus qualsiasi fino alla stazione e poi un altro fino alla Nomentana. Corsie preferenziali, tragitto libero e subito arrivo alla Fandango.

Che ve lo dico a fare? Ho aspettato l’autobus per 30 minuti. Mamet insegna, ma il servizio Atac non scherza, nel senso che invoglia il nostro istinto a drammatizzare. Io non so se esiste una legge specifica o se Murphy, alias Arthur Bloch, l’ha già scritta, ma fatto sta che da quando vivo a via di Donna Olimpia, circa sei anni, ogni volta che voglio prendere il 44 e mi avvio verso la fermata, vedo l’autobus che passa. Non corro, perché sono sempre a una distanza tale che, matematicamente, anche se scatto, non ce la posso fare (tranquilli, ho provato, è un dato empirico).

Vedo passare l’autobus e penso sempre: vabbè, l’ho perso, ma tanto adesso, questione di minuti, arriva l’altro.

Ho aspettato l’autobus per trenta minuti. Appunto. Ora, la fermata è su via Abate Ugone: una trentina di metri dall’angolo tra via Abate Ugone, appunto, e via di Donna Olimpia. Il 44 arriva da via Ozanam, e dalla fermata non lo vedi. Devi scendere giù, all’angolo e guardare verso l’alto, verso via Ozanam, appunto. C’erano molte persone alla fermata, alcuni rassegnati, altri, io ero il primo, nevrotici: andavano su e giù, maledicendo il servizio, il sindaco, la città di Roma ecc. Insomma, drammatizzavano.

Io, però, oltre a drammatizzare, scendevo anche giù come una vedetta all’angolo tra via Abate Ugone e via di Donna Olimpia, per avvistare il 44 e avvisare la ciurma che il tormento stava per avere fine. Sono sceso e risalito e l’autobus non arrivava. Arrivavano però i 44 in direzione contraria, e qui, non so se c’entra Murphy, ma quando vedi arrivare l’autobus in direzione opposta, sai anche che fra poco arriverà quello tuo.

Giornata sfortunata: il mio autobus non arrivava. Telefonate per spostare l’appuntamento, previsioni di percorrenza, calcolo dei tempi, traffico, servizio meteo, tutto via orale, che dici, ci si chiedeva tra di noi, quanto ci posso mettere? Venti minuti? No, che dici? La Nomentana è bloccata, un’ora? Come un’ora? Chi te l’ha detto che la Nomentana è bloccata? Nessuno, te lo dico io, fidati. Informazioni sparse, così, intuizioni o dati empirici raccolti in anni di peregrinazioni sfortunate per la città , di drammatizzazioni indefesse e inutili.

Unica consolazione: la canzone dei Portishead, Roads. Versione live: Roseland, New York, splendida esecuzione, accompagnata da un’orchestra di violini.

Oh, can’t anybody see
We’ve got a war to fight
Never found our way
Regardless of what they say

How can it feel, this wrong
From this moment
How can it feel, this wrong.

L’hanno scritta per me, per alleggerirmi questo momento, all’angolo ad aspettare l’autobus, avanti e indietro, come mi sentivo? In questa battaglia quotidiana, perso all’angolo di una strada? David Mamet non ama nemmeno lui i flashback, e come lo capisco! E ha un rapporto ambiguo con le digressioni. A me invece le digressioni piacciono, è uno dei vantaggi della scrittura rispetto alla sceneggiatura, e un vantaggio della scrittura orale, cioè, dello sguardo dal basso, nei confronti dei canoni imposti, dall’alto.

La digressione mi serve per dirvi che la musica è un’arte superiore a tutte, e se avessi saputo cantare, mica stavo qua, alle sei di sera, con la pioggia, triste e solitario, chiuso in camera a scrivere un pezzo per il Post. La musica ti permette, a differenza della narrativa e di altre arti più riflessive e lente,  di essere immediatamente altro da te, come succede con la danza.

E per dirvi anche che le cantanti sono superiori ai cantanti. Ne sono convinto. Esprimono meglio la sofferenza (cos’è la taranta se non l’impossibilità in una società arcaica, premoderna e maschilista di esprimere attraverso le convulsioni musicali un dolore?) e probabilmente anche un canone magico rituale che si perde nella notte dei tempi.

Avete visto cos’è Beth Gibbons, la cantante dei Portishead? Come canta? Con quell’intensità da spezzare il cuore? Come arriva in profondità, quali corde sepolte, sotterranee, va a smuovere? Avete visto mai Nina Simone? Non appena prende la nota? Toglie il fiato. Su YouTube c’è un suo video, al Montreux jazz festival, canta Feelings, e forse finge di dimenticarsi le parole, va veloce e si ferma, osserva un punto, non si trova. Ma guardate, un attimo dopo, quando entra nel pezzo e prende la nota, come costruisce seduta stante quel sentimento, e come lo innova, lo innerva con nuova linfa. Beh, quella è una vera lezione di scrittura creativa, di drammatizzazione, appunto.

E Mia Martini? Patti Smith, Marianne Faithfull? P.J Harvey? La Joplin? Quella di Kozmic blues – sul palco faccio l’amore con 25 mila persone, poi torno a casa, da sola. La Callas?

A loro neppure serve più cantare, basta che si avvicinino al microfono per lasciarci senza fiato. In un commento al post precedente, Frabu mi correggeva, giustamente, e ricordava che la musicista che suona l’assolo (violoncello, non contrabbasso) in Venus in Furs è l’eccelsa Jane Scarpantoni (ps non ho l’id per entrare nei commenti e rispondere, e sono poi convinto che un pezzo una volta scritto non può essere chiosato dallo stesso autore, insomma, il guaio è fatto. Per Antonello 72: il testo della Lalli è molto chiaro su Habermas) Certo, la conosco e quell’assolo è probabilmente la migliore versione musicale di un orgasmo femminile, violento, intenso, spezzato, diluito, fuori canone, non erotico, non porno, ma allucinato, e insomma, in una parola: moderno.

Questo per dirvi che mi sono sempre innamorato di donne che sanno cantare o che non sanno cantare ma cantano lo stesso, a pieni polmoni, o che amano suonare. Non delle cantanti propriamente dette, ma quelle che di mattina inventavano canzonette stupide, e solo per me (e mi mancano), un ritmo nuovo, allegro o sconsolato, quelle che cantano (spero per me) in motorino (mi mancate) e insomma, capaci di farti sentire altro da te, di nuovo bambino – o forse di non farti sentire così solo e inutile.

E non c’entra la mamma, il tepore, il calore, anzi l’opposto: si tratta di inquietudine, e di curiosità, intendo dire: la musica ci consegna uno sguardo bambino, e c’è un momento che i bambini straparlano, stravedono, sono visionari, esplosivi, non canonizzati, ma alla ricerca di  qualcosa e (sono) struggenti e impauriti quando questo qualcosa si manifesta. E le cantanti, meglio dei cantanti, ti riportano in questa dimensione.

Uno dei difetti delle digressioni non è perdere il filo, ma dichiararlo: ho perso il filo, cosa volevo dire? Quello non è un bravo narratore orale, non vi fidate. La canzone Roads, o meglio, la straordinaria voce rauca di Beth Gibbons, e così trip hop, mi hanno permesso, all’angolo della strada di avere una sorta di esperienza extracorporea. Esattamente al minuto 3.30, quando attaccano i violini e la musica va su, io mi sono staccato dal corpo. Simili esperienze esistono, non hanno niente a che fare con il paranormale. Narrativamente non so come classificarle, ma posso dire che sono l’unica vera ragione dell’arte, in senso lato, un’opera che non abbia un punto di fuga, fuga: salto in avanti, o salto in alto, o contemporaneamente salto indietro e in avanti, insomma, un’opera priva di tale punto di fuga non è un’opera artistica. Quando questo accade sei altro da te, e il tuo corpo astrale si stacca dal corpo e vola.

Mi è successo, e sono volato sopra questa città, Roma, e ho visto centinaia e centinaia di persone alla fermata dell’autobus che si chiedevano, drammaticamente, quando passasse l’autobus: una città ferma, bloccata dal traffico, e poi, quando Beth Gibbons ha riattaccato, ero già  in alto, in orbita, sopra l’Italia. E sapete cosa ho visto: un paese immobile, perché troppo pesante, con questa zavorra che è il passato, un passato tutto idealizzato, e dunque inservibile. Un paese bloccato da scarsa immaginazione, da poca curiosità, lento, slow e per niente trip hop, poco sensibile alle contaminazioni.

L’ultimo numero di Scienze. Bellissimo, tutto dedicato alla città, quella attuale e quella del futuro. Qua bisogna organizzarsi e distribuire la rivista porta a porta, al sindaco, ai cittadini, agli amministratori, ai rottamatori, ai segretari dei partiti e a quella parte della sinistra (credo la maggioranza) reazionaria, cioè che ha abiurato: basta conoscenza, basta metodologia,  basta salti in avanti o in alto, basta gestione dei rischi, viva le tradizioni, la fisarmonica, i cantautori lagnosi e ideologici, quelli arrabbiati perché conviene, il piccolo, l’orto domestico, l’antico sapere, la decrescita.

In questo numero di Scienze, la città è raccontata come un personaggio di un romanzo.  Ogni parte è un movimento, ogni movimento ha una dinamica. E c’è di più: spesso i movimenti, quelli migliori, innovativi, nascono dal basso.

Ma sei di sinistra? A me qualche volta lo chiedono. Ma sospetto perchè sono favorevole agli ogm e dunque sono fuori canone indignatos. Sì, rispondo, voto da sempre a sinistra. Però con un po’ di pudore. Insomma, mi sono formato sui testi degli anarchici inglesi (e su De Andrè, ma è un altro discorso), come Colin Ward. La rivista Anarchy, era una rivista di urbanistica. Incredibile. Quel gruppo lì era composto da persone attente alla città. Il pensiero utopistico, disse Colin Ward, esiste ancora ma si occupa di tre cose; la città, come e per chi la si costruisce, i bambini, come orientare per loro la città, e le automobili, come fare a prenderle il meno possibile. Per l’utopia, dunque, bisogna passare per la città. Dal basso, dalla cultura orale, dal trip hop, contaminazioni: l’unica speranza per alleviare i dolori.

Ora leggo Scienze – cioè, ora, mentre sono in volo, trasportato da una voce femminile, ricordo di aver letto Scienze – e vedo che i migliori e forse i semplici progetti che si stanno sperimentando, a Singapore per esempio, nascono dal basso. Live Singapore. Qui si usano dati in tempo reale, registrati da numerosi dispositivi di comunicazione, microcontrollori e sensori dell’ambiente urbano per analizzare lo stato della città momento per momento. I risultati mostrano nuovi modi di interpretare e rendere più efficiente la città, in ultima analisi aiutano le persone a viverla come mai prima. Il software a piattaforma aperta di Live Singapore consente di sviluppare applicazioni diverse in modo interattivo: che suggeriscono ai pendolari come rientrare più velocemente, e ai cittadini come ridurre il consumo energetico quel quartiere e come procurarsi un taxi quando un temporale si sta abbattendo sull’isola e tutti i taxi sono scomparsi.

Costruire dal basso, insomma. Anarchia vera. Buon uso della tecnologia. Google maps per esempio. Invece di costruire dall’alto una costosa rete di sensori lungo le strade, Google interroga costantemente una grande rete di volontari anonimi, i cui dispositivi cellulari riportano lo stato dell’ultima ora, rilevando dove il traffico scorre, dove è lento, dove è bloccato. E, soprattutto, quando arriva il 44.

Invece, in questo grande paese, bloccato, che costuisce su macerie romane (Luca Molinari qui; Beniamino Servino, che ha indicato a me e Molinari quella foto, è uno dei migliori architetti italiani, lo dico perché è mio amico e quindi lo conosco, è poetico e innovativo, e non convenzionale, dunque utopistico) sembra non si possa essere utopistici, solo perché non si bada alla città. E invece, dall’alto, ora, volando, ho visto le periferie e le favelas che contrariamente a quello che si pensa, sono anche luoghi di innovazione, basta saperlo e collaborare, ho visto 690 mila mila persone che a Washington in nove mesi hanno noleggiato una bicicletta perché lì il programma di bike sharing funziona bene, ho visto architetti che progettano grattacieli di nuova generazione, perché le nuove ricerche rivelano che le città diventano più produttive e più efficienti mano mano che crescono di dimensione. Ho visto urbanisti collaborare con scienziati e sociologi e intellettuali e cittadini per capire come ridurre le emissioni, come risparmiare acqua, come creare nuovi sistemi di trasporto integrato, come proteggere la salute pubblica. L’ho visto e non si tratta solo una impressione labile dovuta al corpo astrale: queste cose esistono. Siamo noi, questo grande (e troppo antico) paese che non le vediamo, forse perché non ascoltiamo la musica giusta o perché siamo fermi all’angolo della strada ad aspettare il 44 – e quando finalmente l’ho avvistato ho avvisato, dalla mia postazione, in basso, all’angolo tra Donna Olimpia e via Fonteiana,  ho avvisato i miei compagni di sventura, agitando un braccio: arriva, arriva! Altro che programma Live Singapore.

P.S. in autobus, contenti, abbiamo smesso di drammatizzare. Questo è il problema, ci dimentichiamo tutto.

P.P.S. o meglio, non trasformiamo la rabbia in innovazione, alla fine, quando arriva il vecchio 44, e ci trasporta, ci basta così. E avanza pure. Alla prossima indignazione.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.