Le donne di provincia

Ci pensavo, appunto, ieri notte. Però non immaginavo che Van Gogh mi portasse alle donne. Si vabbè, l’insonnia, la solita: cioè, pensavo al fatto che andai, era la fine degli anni ’80 (ero fissato con CCCP, e lo sono pure adesso) a vedere la mostra di Van Gogh, a Roma. Affollatissima. Allora abitavo a Caserta, ero pure giovane – a proposito di giovinezza, pensavo, sempre durante la notte: a quella donna, non giovane, che in villa Pamphilj, correva con un passo così sostenuto da superarmi, e andavo in bici. Vabbè. Riesco a recuperare i soldi per il treno (un espresso a bassissima velocità), due ore e mezza, aspetto in fila tipo altre due ore (affollatissima) e finalmente entro. Venivo da Caserta, passavo il tempo al bar o al pub, vita di provincia, caffè, aperitivi, su e giù, tra corso Trieste e piazza Vanvitelli, con qualche raro momento creativo (gli spettacoli di Toni Servillo), e, insomma, finalmente qualcosa di nuovo: i magnifici colori: Van Gogh. Che bello.

Torno con l’ultimo treno, altro espresso lentissimo, sbuffamenti, imprecazioni: ma che paese di merda, tre ore Roma- Caserta, quando la fanno l’alta velocità? e ricomincia la vita normale, caffè, aperitivi. Con una differenza: parlavo di Van Gogh e mi sentivo contento. Tutto questo finché un giorno guardo Mixer cultura e un critico (chi era? Non me lo ricordo, anche perché durante la notte mi è venuto un altro pensiero: devi leggerti il libro di Cassano, modernizzare stanca. Ma come stanca? L’espresso Roma-Caserta, tre ore…) e questo critico parla, appunto, della mostra di Van Gogh. Avevo, in cucina, un televisore Grundig, senza telecomando (modernizzare stanca?) e alzai il volume girando la manopola. Il critico parlava della mostra, e che diceva?, quelli che andavano a vedere la mostra erano omologati, si lasciavano trascinare dalla moda, di Van Gogh, in fondo, non capivano niente. E poi partì una discussione sulla fruizione dell’arte nella società moderna, omologata, ecc. ecc.

Cioè? Io ero omologato? Non capivo niente? Ma i colori di Van Gogh mi erano così piaciuti, i suoi quadri mi sembravano disegnassero paesaggi moderni. I campi di grano: sfocati in primo piano e nitidi sullo sfondo, erano gli stessi che vedevo io, quando percorrevo in treno il tratto Colleferro-Latina, insomma il frutto di uno sguardo moderno, dal treno, no? (che pure se era lento, produceva uno sguardo veloce). Anche io vedevo primi piani sfocati e panorami nitidi. Avevo fatto due ore di fila. Come ero omologato? Ma che cazzo! Che sfiga. Poi ho pensato ad altro, anche perché dovevo incontrare Giacomo, sta preparando un documentario sui CCCP. Ecco, secondo me Ferretti è rimasto quello che era, uno che prova nostalgia per l’infanzia perduta. Comunismo uguale infanzia perduta?

Ci pensi. Sempre a Van Gogh. Vai in giro in bicicletta (a pa’, comunque, la bicicletta è mia, così, giusto per chiarire) e rimugini. Il senso di inadeguatezza. Cioè, non sono abbastanza bravo per capire Van Gogh. Inadeguatezza culturale. Aggiungi a questo il fatto che sono di Caserta. Provincia, sud, vari intralci culturali. Per molto tempo ho subito. Il passo. Il corso Trieste, le vasche su e giù. L’affanno (le donne che mi superano in bici? E che c’entra?). Ti manca il fiato davanti Van Gogh. Come se non avessi un codice di riferimento senza il quale non posso fidarmi di me stesso. Avrò o non avrò le giuste, adeguate, sensazioni davanti a un quadro? Alla fine quel critico mi ha convinto (ma chi era, Zevi?, di notte mi sono alzato e ho cercato Mixer cultura su Youtube. Niente, però c’è un video con Carmelo Bene a Mixer cultura: spettacolare, sempre sui critici).

Nella vita ho studiato, ho approfondito. Ho cercato un maestro. E qui entrano in scena le donne (ah, ecco che c’entra quell’immagine, la signora che mi supera in bici, eh ‘sti personaggi moderni, così pieni di pensieri). Sono qui ai campi da calcio di Villa Pamphilj, in una bella giornata di sole. Ho letto pure l’articolo di Mercalli sulla Stampa, aumento delle temperature uguale aumento di CO2. Però non è così semplice. Non è lineare, la crescita. Lo dicono i dati (all’esame di meteorologia, ad agraria, presi 26). Vero, un incremento di 0,7 gradi in un secolo. Ma è una media. Bisogna considerare infatti tre fasi distinte. Una crescita delle temperature, 1850-1945. Una di raffreddamento 1945-1975. Un nuovo riscaldamento, 1975 -1988 e poi la temperatura globale è rimasta stabile nell’ultimo decennio. Insomma all’aumento dell’emissioni di CO2 non corrisponde un aumento della concentrazione (sarà così? Si potrebbe fare una sorta di Mercalli risponda! Sì, ma con complessità. Però, 26 all’esame, mi sento inadeguato davanti a Mercalli).

Comunque, dicevo, guardo le donne. Le guardo da una vita, in maniera poco raffinata, per niente discreta. Mia figlia mi rimprovera, a volte con uno sguardo amareggiato. Ma tant’è. Francamente, non mi importa. Per esempio, uno scrittore mi disse: non faccio mai passare avanti le ragazze, perché non voglio che loro pensino: questo mi fa passare avanti, solo perché vuole guardarmi il culo. Ecco, al contrario, io le faccio passare avanti solo perché voglio guardarle il culo. Pensino quello che vogliono, tanto io bado al mio piacere, quindi, sono molto leale, passate avanti perché ho piacere di guardarvi il culo. Le ragazze di villa Pamphilj, sono belle e moderne – sono profondamente democratico e attento nei confronti della bellezza femminile, apprezzo particolari che altri trascurano (se non ci sono me li invento, ma su loro specifica misura). Corrono, mi piacciono. Ma vengono dalla provincia, almeno la maggior parte. Riconosco l’accento, quella è napoletana (Vomero) quell’altra è napoletana (ma zona periferica), marchigiana, lucana, umbra, toscana (Firenze, Empoli). A Roma le ragazze, almeno quelle che incontro, vengono dalla provincia. Ci riconosciamo, questione di passo, di sicuro abbiamo visto un Van Gogh da qualche parte.

Ora, nei confronti delle donne ho sempre avuto l’atteggiamento di stupore, lo stesso che provai davanti i quadri di Van Gogh. Fin da piccolo, mi bastavano poche cose per essere felice: vederle arrivare con quelle vocine un po’ stridule, allegre, vederle riunite in gruppi ristretti, ragazzine che chiacchierano chi sa di cosa. E poi, giocare insieme. Parlare di qualcosa di importante – o che credevo fosse importante. Stare in silenzio. Con loro ci riuscivo, con i maschi no. E ancora, vederle crescere all’improvviso, svilupparsi, superarti in altezza. Avvertire che il sentimento verso di loro stava cambiando, dalla tenerezza, al candore, al piacere di toccarle, il calore del tatto. Il piacere di sporcarsi per loro, disperdere e non investire, sparigliare invece di ordinare, dire la frase sbagliata, la battuta un po’ spinta per farle arrossire. Cose semplici. Come i quadri di Van Gogh, il grano, il turbinio dei colori, il giallo e quelle meravigliose stelle. Poi arrivavano gli amici più grandi e ti dicevano: ma che fai? Non si trattano così le donne, così non ottieni niente. Mo’ ti faccio vedere io, guarda me.

Avevano ragione. Loro, infatti, si prendevano le donne. E io le guardavano allontanarsi, allungavo la mano come per trattenerla: ma che fai te ne vai? Che senso di nostalgia, a volte, per quei momenti perduti per sempre, lacrime nella pioggia, o la slitta Rosebud che invochi sul letto di morte. Ho dovuto imparare come si fa, messo alle strette. Le donne che vengono dalla provincia e che ho incontrato a Roma hanno, di solito, queste caratteristiche. Una sensibilità spiccata verso il bello, anche loro avranno visto Van Gogh. Talento, concentrazione, ambizione. Ma, di contro, hanno un’altra caratteristica: non credono in loro stesse, le pervade un senso di inadeguatezza: provincia verso metropoli, cambio di passo. Avrò fatto la cosa giusta? Avrò detto la frase adeguata? Le vedi mentre prendono tram e bus notturni, o con borse della spesa e da viaggio, pesantissime (hanno tutte un segno rosso sulla spalla). Trasportano mobili IKEA su motorini precari, si caricano divani su per le scale, ora sono con te, fra un’ora dall’altra parte della città. Vai nelle loro case e te le ritrovi con un cacciavite in mano, e avvitano qualcosa con grazia. Che so, aggiustano una maniglia, fanno buchi con il trapano, montano una mensola.

Rimango a guardarle, stupito da tanta manualità – non chiedetemi mai di aggiustare qualcosa in casa, non lo so fare e non voglio imparare, lo so che c’è un codice manuale, non me ne importa! A volte mentre montano una mensola, in queste case brutte, periferiche, piene di scarafaggi – e che loro cercano di rendere carine, vivibili, presentabili, calde – insomma, mentre fanno partire il trapano e bucano la parete, ti dicono una cosa intelligente, sul mondo, sulla vita, e pure su Van Gogh. Faccio lo scrittore (va bene, non scrivo un romanzo da sei anni, solo saggi) e pur usando con facilità le parole resto a volte incantato: una frase semplice e chiara. Dico: bella questa cosa che hai detto! E loro accennano un vago sì con la testa e rimettono in moto il trapano. Dopo, prima di entrare a letto, le mani ancora sporche, ti chiedono: ma se dicessi una cazzata, me lo diresti, vero? Non è che lo fai solo per scopare? No, no, e lì, abbandonato, illanguidito, ho voglia di alzarmi in piedi, e parlare non solo a quella ragazza, ma a tutte le ragazze che dalla provincia vengono a Roma – insomma, è chiaro, la provincia è una metafora. Hai detto una cosa intelligente, mi è piaciuta, non lo dico per un secondo fine, tanto il culo te lo guardo lo stesso, a prescindere, e per il mio solo piacere, credimi: hai detto una cosa intelligente.

Capisci una cosa: anche le ragazze hanno bisogno di un codice e cercano un mentore. La modernità. Stancherà pure, di sicuro ti rende fragile. Mia nonna era sicura del suo ruolo, il codice lo conosceva, mia mamma un po’ meno (femminismo, il boom) ma le ragazze di provincia che vengono a Roma, vogliono essere moderne, abitano in case brutte, le vogliono trasformare, vogliono bambini, tanti, ma prima vogliono capire che sono venute a fare a Roma. Modernizzare stanca, ma è un obbligo. Si dicono, ok, la nostalgia, va bene, ma il bilancio lo farò dopo, guardandomi indietro. Magari sul letto di morte, ora voglio capire, vivere, investire.
Questo vogliono, ma si sentono inadeguate nei confronti dei loro stessi sentimenti. Hanno bisogno di un codice. Qualcosa che semplifichi la vita. Perché – dicono – noi ce lo chiediamo se il buco fatto con il trapano è sulla giusta linea, se la mensola viene su sbilenca o il guardaroba crolla. Mica con tutti questi pensieri ci sabotiamo da sole? Che dici tu? C’è una teoria in proposito? Insomma, un critico, un critico che per l’amore dell’arte dica come guardare il mondo. E tu pensi: ci sono io. Il trapano no per favore, ma per il codice si può fare.

Bisogna diffondere le TED conference. Gli intellettuali italiani dovrebbero fare l’esame TED. Perché modernizzare stanca solo se non si conoscono le TED e, di contro, si leggono gli opinion leader italiani, spesso nostalgici, del tipo: io so, ma non ho le prove. Ma che sai? Sai se hai le prove. La ricerca delle prove è una seria forma d’analisi culturale. Qua le opinioni non mancano, ci vuole piuttosto un metodo per vagliarle. Ci penso sempre alle TED mentre, in bici, percorro i viali di villa Pamphilj – non voglio qui dire come mi danno fastidio le ragazze che si legano il maglione in vita, lasciamo stare: questa scarsa fiducia nel proprio corpo. No davvero, www.ted.com. E conoscerete il mondo, le più belle innovazioni culturali, le nuove idee in circolazione, le nuove scoperte: democrazia culturale. Tutto questo in uno speech che non può superare i 18 minuti. Creatività, semplicità, chiarezza: modernità, democrazia. Altro che stanchezza.

Ho visto un talk di Denis Dutton, una teoria darwiniana della bellezza. Incentrata su un mistero, quello delle asce bifacciali d’amigdala, trovate un po’ ovunque, in Africa e in Europa, in un arco di tempo che va da 2 a 1,4 milioni d’anni. Bellissime. A forma di cuneo, sembrano una lacrima rosata rappresa. Problema: a che servivano? Per cacciare? No. Sui bordi non ci sono segni di uso, centinaia e centinaia di asce bifacciali non presentano segni d’usura. E allora? Il mistero si infittisce. Erano oggetti senza un valore pratico, e quindi – cioè, per questo – quelle asce erano belle. Sono belle ancora oggi da vedere. Perché le realizzavano? Per bellezza, non c’è altra spiegazione. Chiunque modellasse quelle asce era un uomo con capacità particolari: manualità, praticità, concentrazione, impegno. Fitness, come dicono i darwinisti. Una modalità attraverso la quale agisce la selezione naturale. Un modo, cioè, per comunicare con le donne: dai vieni nella caverna a vedere la mia collezione di asce. Come la coda del pavone: scegli me, che ho la coda più bella, prendi me che so come produrre la bellezza. Sono sicuro che per la femmina del pavone la coda del maschio sia bella, scrisse Darwin.

E così che va il mondo? Una storia identica a se stessa? Produciamo la bellezza per essere scelti? Cosa c’è di più commovente che immaginare all’alba del mondo – è stato un tempo il mondo giovane e forte, grande pezzo dei CSI – un uomo della specie degli ergaster o degli erectus, chino sul suo pezzo di roccia informe, intento a modellare un’ascia? Cosa c’è di più commovente di questa ossessione solitaria, artistica? Cosa c’è di più commovente della complicità delle donne nel farci credere d’essere i migliori scultori d’amigdale? È o non è un modo per fornire un codice: scegli me, so cos’è la bellezza. È o non è una stupida e tragica e tuttavia deliziosa convinzione la nostra, di maschi, quella di credere che hanno scelto noi?

Mica tutte le donne sono uguali? No, manco per idea. Non so, una ragazza mi regala dei mocassini, mi dice: i mocassini sono le scarpe più eleganti che esistono, semplici, raffinate, le puoi mettere sempre. Anche noi maschi abbiamo il nostro senso di inadeguatezza. Metti i mocassini, e ti senti raffinato, aristocratico. Finalmente padroneggi il codice. Vai a una festa, incontri un ragazza, ti siedi sul divano, parli del più e del meno, poi lei ti dice: non c’è niente di meno erotico dei mocassini. Ah sì? Stessa questione per le camicie: ma che colori spenti ti sei messo, ma che sei un vecchio? Spenti? Ma non sono tenui? Ma che tenui, so’ morti, non lo vedi. Bellissimi questi colori tenui, amplificano il colore dei tuoi occhi. Ti fanno più vivo. Giungi subito alla conclusione che è meglio non prestare ascolto ai consigli di moda femminili: non cercare di accontentarle, resti deluso e soprattutto a lungo andare restano deluse loro. Non stare lì a chiederti cosa si chiedono di te. Falle passare avanti, dichiara che le guarderai egoisticamente il culo. Insomma, badare al proprio piacere è un gioco elegante. Il fine è chiaro, niente strategie da quattro soldi. Non chiedere perché il mocassino è sensuale o disturbante, perché entrate in un territorio pericoloso. Qualcuna ha avuto una storia bella o brutta con un uomo dal mocassino facile. Rischiate: le ragazze hanno una tendenza a raccontarvi il loro presunto stato emotivo, cioè, a cercare giustificazioni sui mocassini, belli o brutti. Rilanciate: senti, la conosci la teoria darwiniana della bellezza? No, di chi è? È mia – una menzogna necessaria. E lei magari, dopo, ti dice: ma è bellissima, ma come sei intelligente. E il momento adatto, ideale: puoi dispensare il codice.

Non sono tutte uguali, però hanno una cosa in comune: imparano presto. Magari questo codice esiste davvero, ne apprendono i rudimenti, lo integrano, lo usano, ottengono quello che vogliono. Qualche volta diventano ciniche, disincantate, ridacchiano sull’amore e sulle moine sgraziate degli innamorati – in genere di questo danno la colpa ai maschi, gli stessi maschi in cui avevano creduto, e ai quali avevano detto: senza di te, sto sotto a un tram (e noi subito a modellare un’ascia). Qualche volte se ne vanno. Capiscono che c’è un punto superato il quale quel codice è un inganno. Insomma l’ascia non taglia, non è pratica, loro devono montare la mensola, il divano, sono sole, non possono contare su nessuno, ‘sta cazzo di teoria della bellezza… che me ne faccio? Quando te lo dicono sono molto decise, spesso crudeli: sei buono solamente a parlare, hai rotto il cazzo, tu e i tuoi problemi, non sai nemmeno sceglierti le scarpe, porti ancora i mocassini e queste camicie assurde, ma dove le hai prese? Fatti curare, vai in analisi, spendi un po’ di soldi, ma almeno vivi meglio, stai ancora con mamma e parli d’asce. Grazie e arrivederci, mi fai schifo, te ne devi anna’!

Ti ritrovi solo con un senso di inadeguatezza, sei pur sempre della provincia. Che fare? Scegli anche tu un mentore, un altro, che ti fornisca un codice diverso, più svelto, più profondo. Studi, ti impegni, la bellezza cambia, anche i codici, il mondo si evolve, devi stare al passo, cambiamento climatico, settembre come agosto, Mercalli, prepararsi per tempo, vero, non vero, la modernità avanza e stanca gli stanchi.

Quella signora corre più di me che vado in bicicletta. È moderna. Quindi? Quindi se arretri ti ritrovi a rimpiangere. La nostalgia ti appiattisce sul presente. Diventi un conservatore: la chiesa, il territorio, l’identità, la tradizione i sapori di una volta. Slow, andiamo piano, per carità, slow food, slow tour, ecc. Ho un terribile sospetto, che siano solo perifrasi maschili per dire: eh, le donne di una volta, come mia nonna, tranquille. La nostalgia può diventare poetica solo se è tragica, quando maledici l’infanzia puttana, perduta per sempre (Carmelo Bene). Nelle canzoni dei CCCP, CSI e PGR. Quando tenti di far rivivere un fantasma di un amore perduto, per sempre, come in Fitzgerald. Un amore che però ti ha cambiato, codice a parte, hai vissuto, hai giocato, hai dormito, sei stato in silenzio, hai inventato una storia, c’hai pure creduto, hai sbagliato, l’hai tirata per le lunghe, modellavi un’ascia quando dovevi montare tu una mensola. Un gesto d’arroganza, fiducia nel potere della parola e nella bellezza. Ed è finita. Indubbiamente, l’irreversibilità ha la sua forza poetica. Oppure, più modestamente, ma senza perdere d’efficacia, puoi dichiarare che i tempi stanno per cambiare. Senza enfasi, niente Bob Dylan, preferisco quel modo di cantare malinconico e così sensibile di Morrissey quando canta il primo verso in Please, please, please, let me get what I want: good time for a change. Questo pensavo mentre prendevo caffé al bistrot di villa Pamphilj. Quando poi, all’improvviso, è arrivato mio figlio e mi ha scosso: a pa’, la bicicletta, la devi legare, se la rubano, ieri a casa del mio amico, nel giardino chiuso, si sono fottute due bici elettriche, hanno scavalcato e addio. Devi legarla. Stai sempre a pensare, ma che pensi? Dammi la bici, vai mi faccio un giro, che fra poco ci sta la Roma. Pare che Luis Enrique ha cambiato schema di gioco. Ha cambiato codice? Ho chiesto io soprappensiero. Ma che codice. Schema, non codice. A pa’, mannaggia.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.