L’Italia del tipico

È dai tempi del fascismo che l’Italia fonda una parte del suo immaginario sul concetto di tipico. Questo concetto è una derivazione più o meno raffinata di un altro e più grezzo concetto: autarchia. Possiamo (dobbiamo) farcela da soli perché il mondo fuori ci è nemico. Dunque è necessario sfruttare appieno le nostre potenzialità, il nostro ingegno italico, impegnarci e portare avanti i prodotti e i beni di consumo, rifiutando quelli stranieri. Di questa visione del mondo, visione tra le altre che il fascismo utilizzò durante il ventennio, ci sono rimasti oggi degli echi, certo meno grezzi: ma nella sostanza si può dire che, per esempio in campo agricolo, queste venature autarchiche hanno sostenuto e alimentato altri concetti come prodotto tipico, chilometro zero ecc che oggi fanno parecchia tendenza. Leggete un giornale, di centro, di sinistra o leghista, che siano o meno patinati, radical chic o popolari, tutti elogiano i produtti tipici e il chilometro zero.

Del resto, i ministri che si sono succeduti al dicastero dell’Agricoltura, sia che fossero di destra sia di sinistra sia leghisti, hanno tutti sostenuto questi concetti – alla fine siamo portati a pensare che i ministri dell’Agricoltura possono anche venire estratti a sorte, con la monetina. Insomma sono concetti che incantano. Ma ragionando sui dati (quelli che seguono sono dati Istat elaborati dal professor Casati, Università degli studi di Milano) la questione del tipico si complica ed è interessante allora valutare i pro e contro di questo incanto.

Cominciamo con i pro. Perché interessarsi ai prodotti tipici? Innanzitutto per un paio di ragioni economiche, e conseguenziali: a) la competizione è la regola nel mondo globalizzato, ma la nostra agricoltura è in difficoltà, di conseguenza nasce l’idea del tipico, b) per dare valore a un prodotto occorre differenziare, quindi ecco il concetto di tipico, ovvero quel prodotto che offre un requisito che non ha concorrenti e che è accessibile però a tutti i produttori. La strada è in fondo la stessa delle grandi griffes. Il tipico crea un’immagine di differenza rispetto al resto della produzione, percepita come “omogenea” e “massificata” e che quindi viene valutata e pagata meno. Inoltre, la provenienza geografica è un elemento esclusivo e non contendibile, o c’è o non c’è: tra i valori aggiunti del prodotto tipico ce n’è, quindi, uno immateriale.

Ma l’Italia ha ragione o no di vantarsi dei suoi prodotti tipici? Vediamo, su 853 denominazioni europee, 182 sono italiane, 166 francesi, gli altri seguono. A questo punto è necessario, dopo l’incanto, però, far subentrare la fase analitica: questi numeri che sembrano parlare da soli, bastano o non bastano a convincerci? Voglio dire qual è il loro rapporto col resto dell’agricoltura? E soprattutto, quale il loro reale valore economico? Dati alla mano, quanto conta il tipico nell’agroalimentare italiano? Sul fatturato alimentare il 4% (circa 5 miliadi di euro). Sull’export alimentare il 6,0% ( circa un miliardo). Sul valore dei comparti: formaggi 55%, salumi 35%, ortofrutticoli 6%. Sull’export dei comparti: formaggi 58%, salumi 30%, ortofrutticoli 9%, oli 3%. Dunque, è un buon affare, sì, ma per pochi – altra caratteristica italiana – perché 5 denominazioni (Parmigiano, Grana, i due prosciutti e la mozzarella di bufala) rappresentano il 70% circa del valore del tipico alla produzione, al consumo e all’esportazione.

Allora, qua il sospetto ci viene: il tipico è un prodotto che assomiglia terribilmente ad altri – e che spuntano prezzi inferiori – ma che rispetto a questi altri ha un prezzo più alto (definizione del professore Casati). Per di più, le denominazioni controllate nel resto del mondo sono viste come un tentativo di salvare il protezionismo agricolo dell’Ue – quelle italiane, poi, e la maniera di gestirle sono criticate nella stessa Ue, infatti, i paesi del centro nord sono meno favorevoli. Inoltre, l’abuso della strategia, ossia moltiplicare i prodotti tipici, porta a forti delusioni, come nei vini – i prodotti tipici sono poi costosi da affermare e difendere. Ma l’aspetto più surreale e contraddittorio del tipico è forse il seguente: il prodotto tipico rassicura i consumatori, materia locale, manodopera italiana, qualità italiana: ma questa rassicurazione si fonda su un’illusione.

Quando infatti manca la produzione agricola – ossia, se la materia prima locale non c’è – siamo costretti a ricorrere all’importazione. Si può dire dunque che il Parmigiano viene prodotto (in parte) con latte estero e il prosciutto con maiali olandesi? La porchette di Ariccia con maiali spagnoli? I dati ci dicono di sì, per “produrre tipico, oggi importiamo prodotti convenzionali, il 95% della soia e oltre il 23% del mais (che ricordiamo sono per fortuna ogm, cioè necessitano di meno interventi chimici, diserbo e trattamenti con agrofarmaci) necessari per produrre salumi e formaggi. C’è da aggiungere un dato non secondario: il solo costo dell’importazione di mais (indispensabile per l’alimentazione dei bovini e quindi per la produzione di salumi e formaggi) vale la metà dell’export di tutti i prodotti tipici. Questo è un caso particolarmente evidente: salumi e formaggi, infatti, costituiscono circa il 90% del fatturato DOP-IGP alla produzione e al consumo e il 94% all’export. Spediamo di più e produciamo di meno. Vecchia tendenza italiana, autarchica o meno che sia.

E la pasta? il nostro vanto. Possiamo  affermare con sicurezza che la pasta è ancora italiana? Niente, no, nemmeno questa volta. Che sfiga. Anche in questo settore dobbiamo riconoscere la dolorosa frattura tra agricoltura vera e quella immaginata. Visti i dati, si può affermare che un pacco di pasta su tre è di produzione estera. Infatti: la produzione italiana, soprattutto quella del sud, è fortemente influenzata dall’andamento climatico. Le basse produzioni unite all’andamento dei prezzi rendono la coltura anti-economica e non incentivano gli agricoltori a produrre qualità. Nel sud, nell’alta Irpinia, nel Beneventano e nel Salento, sempre più agricoltori, reputando antieconomico produrre cereali, affittano i propri terreni alle imprese del fotovoltaico.

Questi sono i  dati (dati professoressa Saviotti, Amministratore di Apsovsementi S.p.A, Fonte: Elaborazione ISMEA su dati ISTAT, ITALMOPA, UNIPI) sui flussi di frumento duro in Italia. Raccolto nazionale 3,5 –4,1 (in milioni di tonnellate), con cui copriamo appena il 65% della disponibilità nazionale. L’altra quota, 2,2 equivalente al 35% del fabbisogno, è coperta con le importazioni, soprattutto dal Canada. Ma allora? Affidiamo la soluzione della nostra crisi (e non solo agroalimentare) a parole magiche? Passiamo parte del nostro tempo a mettere su una battaglia tra i prodotti tipici (percepiti come di qualità) e quelli convenzionali (percepiti come responsabili della massificazione del gusto e dell’impoverimento della biodiversità)? Agricoltura vera o agricoltura immaginata? Che scontro insensato.

Se fossimo un paese meno autarchico, cioè meno interessato alla salvaguardia del proprio piccolo spazio o meglio, piccolo orto, forse avremmo la possbilità di organizzare e ragionare su una strategia complessa che per prima cosa chiarisca e puntelli questo aspetto banale, ovvio: non siamo soli al mondo, dunque la contrapposizione simbolica “tipico o prodotto di base” è un falso problema: l’uno ha bisogno dell’altro. Purtroppo per valutare e legiferare su questi aspetti è necessaria competenza e gusto dell’analisi. È necessaria la presenza sulla scena politica di  persone capaci di scelte politiche integrate. Ci vogliono, poi, opinion maker in grado di convincere il cittadino che le parole magiche, ossia le soluzioni semplici, portano verso la dannazione – e verso Berlusconi.

A sentire i tecnici competenti, il vero problema è potenziare il sistema agricolo e industriale: senza agricoltura e industria non c’è “made in Italy” alimentare o meno. Solo così si salva tutta l’agricoltura e si possono creare vere eccellenze su basi solide.“Per fare della sostenibilità un fattore di successo dell’agricoltura italiana nella competitività globale, è necessario colmare la faglia esistente tra mondo della ricerca, mondo della produzione e consumatori” (Attilio Scienza, Università degli Studi di Milano). Dunque, serve competitività, cioè produrre di più con costi più bassi, e questo è possibile solo grazie al progresso scientifico e all’innovazione tecnologica – concetti troppo elementari ma che nell’italia tipica e autarchica è necessario ribadire, perché oggi funzionano di più gli astrologi, i biodinamici gli olisti che quelli che studiano con metodo rigoroso la bruta materia di cui sono fatti i sogni.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.