La Microsoft House dietro casa mia e lo smart work

Si chiama Microsoft House (perché presumo che “Casa Microsoft” fosse troppo provinciale) e sta a due passi da casa mia, al confine tra la zona Garibaldi e Chinatown di Milano, a Porta Volta, all’interno del doppio palazzo costruito dalla Fondazione Feltrinelli, che ne abita una piccola parte.

La costruzione del palazzo, opera dello studio internazionale di architettura Herzog & de Meuron, è stata abbastanza combattuta nella zona: ci sono voluti anni, riunioni su riunioni con i cittadini, per arrivare ad avere un blocco di sei piani che prendesse il posto di un enorme vivaio che abitava lo spazio di risulta del giro delle vecchie mura spagnole. Alla fine l’obiettivo, ammesso che fosse questo, è stato raggiunto: creare una struttura mastodontica, abbastanza sgraziata, che sembra il rendering di se stessa. Tutti i giornali che hanno parlato della nuova casa di Microsoft all’indomani dell’inaugurazione sottolineano (come da comunicato stampa) che il palazzo ha ben 832 vetrate. Ma in realtà ha un numero impressionante di campate di cemento a vista sulla facciata che le racchiudono. E tutte queste campate di cemento vi assicuro che si notano.

Microsoft House

Il palazzo degli architetti svizzeri. Rendering o realtà?

La casa brutalista

La struttura non è di quelle acciaio-e-vetro ma di quelle cemento-e-acciaio, brutaliste, pure sgraziate. Disegna l’idea di una gigantesca e sproporzionata (in orizzontale) capanna, una casa centro-europea con finto tetto a punta. Soprattutto, è una discontinuità, uno strappo con qualsiasi traccia architettonica storica o moderna dell’area. Gli architetti responsabili ovviamente la pensano in modo diverso e spingono un improbabile raccordo con “la semplicità e la dimensione generosa delle architetture storiche milanesi come l’Ospedale Maggiore, la Rotonda della Besana, il Lazzaretto e il Castello Sforzesco”. Ma c’è anche l’immancabile influenza delle “cascine che si trovano nelle campagne lombarde e gli edifici per appartamenti di Aldo Rossi nel gallaratese”.

Sarà. Sono archistar e come tali per definizione costruiscono cose che non c’entrano niente e che potrebbero essere edificate ovunque: il palazzo lo potrebbero fare ad Amsterdam come a Hong Kong, o nel centro di Dallas. Per questo trovo patetico festeggiare il design dei “grandi architetti” che “finalmente” hanno lasciato il loro segno spersonalizzante anche da noi. Un franchising delle idee che si mangia le buone idee locali. Nel particolare, poi, io tutta questa roba che dicono (l’Ospedale Maggiore, la Besana, il Castello) proprio non ce a vedo. Piuttosto, se proprio devo pensare a qualcosa, posso fare una forzatura e immaginare un gemellaggio ideale con la Torre Velasca dello Studio BBPR (cioè gli architetti Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers), che è un grattacielo nel centro di Milano della fine degli anni Cinquanta, quando il superamento del razionalismo fascista era un obbligo morale, oltre che una citazione (piuttosto criptica) della Torre del Filarete presente nel Castello Sforzesco.

La casa algida

È tutta una mia forzatura (e un complimento che faccio agli svizzeri), però: perché non è l’intenzione degli architetti Herzog & de Meuron omaggiare lo Studio BBPR. Loro invece, come dicevo, hanno fatto la classica cosa da archistar; un edificio in realtà completamente svincolato dal territorio, algidamente atemporale e aspaziale. Non-luogo del paesaggio, area di passaggio del senso, immagine già pronta per Instagram più che per un panorama esistenziale di chi ci abita o ci lavora.

Ma si sa, Milano sta vivendo il suo rinascimento del cemento, il suo momento verticale (cosa che il palazzo Herzog & de Meuron non è, peraltro: sembra un grattacielo spiaggiato) e quindi bomba libera tutti, si costruisce qualsiasi cosa con qualsiasi stile, anche gli appartamenti con palazzine balconi-di-vetro-e-mura-pastello stile Miami Beach, anche le bio-case stile “Nausicaa nella valle del vento” alle Tre Torri, anche i boschi verticali, purché ci sia da far alzare qualche vecchia gru e da far scavare qualche nuova fondamenta. Come neanche con Minecraft.

Il complesso di Porta Volta originariamente – nelle promesse alla popolazione, diciamo – doveva essere composto da tre edifici: i due costruiti su viale Pasubio e un terzo su viale Montello, dall’altro lato della strada. In testa i due dazi, dietro le balene spiaggiate di cemento e vetro. Poi pare che le condizioni economiche siano cambiate e si è cercata una soluzione alternativa con nuovi partner e nuovi affittuari. Il progetto del palazzo lato viale Montello è stato fermato (ma non prima di aver scacciato la scuola di circo, che aveva un fantastico tendone colorato e occupava uno spazio altrimenti di risulta, salvando però il contiguo super-benzinaio, almeno temporaneamente) mentre lato Pasubio l’edificio maggiore di circa 230 metri è stato affittato a Microsoft.

Microsoft House

Microsoft House prima di diventarlo: un sorridente parallelepipedo di cemento e vetro

La casa di Minecraft

E, visto che citavamo Minecraft, veniamo alla Microsoft House. Che cos’è? Ci sono stati due momenti per capirlo: la presentazione fatta dall’AD di Microsoft Italia, Carlo Purassanta, e la mole di comunicati stampa che è piombata sui giornalisti e curiosi. Sono state concesse interviste, sono stati creati “media event” per la stampa “normale” e per quella “social” (blogger, youtuber, instagrammer e via danzando). Alla fine, la copertura è stata piuttosto ampia e soprattutto tutta uguale. Ricordo una battuta di una giornalista che diceva: quando tre fonti diverse mi dicono la stessa cosa, parola per parola, vuol dire che stanno mentendo. Se gli articoli che state leggendo su un argomento sono tutti uguali, vuol dire che dietro c’è un potente lavoro di ufficio stampa.

Non potrebbe essere diversamente, visto cosa c’è in ballo. Microsoft ha speso 10 milioni di euro per spostarsi dalla sede di Peschiera Borromeo (cintura direzionale milanese) a questa in zona uno di Porta Volta, e ne spenderà altri dieci all’anno per restarci. Un investimento del genere richiede il coinvolgimento anche dell’area marketing e comunicazione, senza dubbio.

La casa di vetro

La nuova sede di Microsoft è “trasparente” per far vedere come si fa smart working e serve non solo come luogo di lavoro (concetto antico e datato, se vogliamo) per i dipendenti di Microsoft, ma come punto di apertura e incontro per tutti gli stakeholder nostrani della multinazionale americana: i collaboratori parte del team guidati dai loro team leader, i collaboratori e team leader di altre country di Microsoft, i partner, i clienti (moltissime tipologie diverse, la maggior parte delle quali B2B), i ragazzi delle scuole, i dirigenti delle scuole lombarde (come avanguardia delle convenzioni che verranno organizzate), più genericamente i cittadini e i curiosi, magari turisti. Magari ci metteranno anche un negozio Microsoft per vendere console e Pc.

La casa torrida

Il palazzo è aperto con il vetro ma molto esposto al sole sul lato sud-ovest. La spianata di cemento sul lato di viale Francesco Crispi (con erba e alberi piuttosto arretrati) lascia immaginare estati torride e la necessità di tenere costantemente abbassate le tende. La promessa di una “casa di cristallo”, una sorta di falansterio al contrario (magari una boccia per i pesci rossi?) è già abbastanza inquietante, ma quello che mi ha attratto di più è un altro aspetto. Cioè la trasformazione del modo di lavorare: lo “smart work” di cui si è parlato sistematicamente e di cui la Microsoft House dovrebbe essere una incarnazione nonché un esempio per tutti gli altri. Perché la missione è anche quello di mostrare al resto del Paese come si fa a fare lo “smart work” (e quindi vendergli le tecnologie, i servizi e le consulenze, come giustamente aspira a fare un’azienda commerciale). Ma cos’è lo “smart work” in salsa Microsoft?

La casa senza le persone

Il palazzo di Microsoft ha l’insegna sul lato nord-ovest e tiene le luci accese fino a tarda sera, a palazzo vuoto, per far vedere come si lavora “smart” dentro. Non mi risulta però che sia energeticamente autonomo (costruisci un palazzo o ci vai ad abitare nel 2017, tu azienda super-smart, e non ti preoccupi dell’impatto energetico? Neanche fosse la torre Unicredit, che ha la carbon footprint di King Kong).

Lo smart work però non è il palazzo. Lo smart work è la trasformazione del “posto di lavoro” in “lavoro senza più un posto”. Se ci pensate, potevamo tutti aspettarcelo: il lavoro non manuale è sempre più basato sul computer connesso in rete. Il computer permette di fare meglio le cose, è diventato l’unico modo per fare moltissime cose, ed è anche uno strumento di comunicazione con il prossimo fenomenale. Niente di nuovo, solo che non ci pensiamo mai abbastanza, secondo me. I momenti di lavoro parzialmente senza computer ci sono e si chiamano riunioni. La Microsoft House potremmo anche chiamarla Meeting House perché ha una serie di spazi pensati per “l’esperienza” (quelli aperti al pubblico, quelli dove ti formano, volente o nolente) e una serie di spazi per gli incontri (dipendenti, clienti, partner, varie ed eventuali). Manca una cosa: il posto di lavoro.

Microsoft House

Microsoft House, felice interpretazione dell’idea di diorama lavorativo; sembra pensata all’Ikea

La casa del lavoro smart

Durante la presentazione è scappata una battuta a una manager: perché occupare per sei ore una scrivania se poi sei sempre in riunione?

Lì per lì a me è venuto da pensare: ma chi è che sta in riunione per sei ore? In realtà, il mio è un punto di vista parziale: se quello che faccio di lavoro non mi porta a stare sei ore in riunione (grazie a Odino e a tutti gli dei del Nord, aggiungo sommessamente), questo non vuol dire che altri non stiano ore e ore in riunione. Dopotutto, a pensarci un po’, è una cosa che ha molto senso: il tempo di lavoro con il computer è sempre più rapido, la crescita dei sistemi automatici oggi e di intelligenza artificiale domani si porta via molte delle attività degli impiegati. Rimangono attività complesse o molto ripetitive ma difficilmente automatizzabili (per ora) mentre il vero spazio di manovra entra nella fase delle riunioni, quella dove il computer entra (per adesso) solo per proiettare lucidi e prendere appunti (o fare la mail quando ti annoi).

Il computer (termine che tengo volutamente generico e ambiguo, facciamo per capirci) aspira e asciuga sempre più gli spazi di lavoro. I lavoratori (collaboratori, partner, clienti) o preparano cose per la riunione, o smistano cose dopo la riunione oppure sono in riunione.

La casa degli armadietti

Quando sono entrato dentro il palazzo durante i giorni dell’inaugurazione, invitato in quanto giornalista che si occupa di cose di tecnologia, ho cercato di capire dove fossero e quanti fossero gli armadietti. Ce ne sono un sacco, nei piani dove devono stare. E hanno una funzione tutt’altro che simbolica: sono i contenitori degli oggetti personali dei dipendenti che per qualche strana magia in Italia da un paio di decenni li chiamiamo “collaboratori”, rendendo fluido anche lo status amministrativo e identitario: sono assunto o no? A tempo indeterminato o a termine? A me è un modo che non piace.

Se gli armadietti vengono assegnati in pianta stabile ai dipendenti, quelli diventano il vero posti del lavoro. Perché è l’unico posto fisso, stabile e riconoscibile. Dal momento che gli armadietti sono funzionali, piccoli e sostanzialmente brutti, mi pare che sia abbastanza facile capire che il vero posto del lavoro è funzionale al limite della disumanità, claustrofobicamente piccolo ed esteticamente brutto. Non c’è niente di male, se pensate che è sempre meglio della miniera (apparentemente). Fra le tre cose a me impressiona più l’ultima, il senso del brutto. Perché, come diceva un programmatore “If I’m looking at something for multiple hours each day it had damn well better look pretty“. La scelta dei miei strumenti di lavoro, che come autonomo mi scelgo io esattamente come i miei vestiti o l’arredamento di casa mia, al netto della disponibilità economica è basata su un criterio estetico-funzionale che parte dalla frase, più una considerazione sull’impatto ambientale di chi produce le cose che compro.

La casa del lavoro smart – II

Cosa vuol dire allora “lavoro smart”? Per me, vuol dire riunioni, riunioni, riunioni. Certo, i cubicoli ci sono sempre (che parola orrenda, ma perfetta introduzione allo spazio relativo), gli open space imperano, le salette “privacy” per telefonate o momenti di relax o momenti di “pensiero intenso” ci sono sempre, c’è addirittura una parte per riunioni e relax costruita come una sala da pranzo. Biliardini e flipper? Ci sono. Xbox e maxischermi? Presenti. Sale con le pareti intelligenti? Certo.

Il lavoro smart è quello dove si cerca di superare la propria fortezza interiore con l’ausilio della tecnologia. Non ci sono più lavori, pardon “progetti”, che si possano portare avanti da soli. Non ci sono più spazi nella struttura in cui portare il proprio capitale umano che plastico e dinamico, come l’acqua prende mille forme. Tutto invece deve essere costruito partendo dall’idea di efficienza e attorno a tavoli in cui siedono persone diverse con esperienze e competenze diverse seguendo schemi e modelli interpretativi della realtà metabolizzati. Formazione, apprendimento, elaborazione: come nella vecchia barzelletta della macchina per farsi la barba.

Un giorno un tenente fresco di nomina con il pallino per le invenzioni va dal colonnello e gli dice: “Signore, ho trovato il modo per risolvere il problema del tempo che gli uomini perdono la mattina per farsi la barba in camerata”. “Come è possibile?”, gli risponde il colonnello. “Semplice. Con questa macchinetta elettrica di mia invenzione: il soldato mette la faccia dentro e le lamette lo radono alla perfezione in trenta secondi”. “Ma le persone hanno facce diverse”, dice il colonnello. “Dopo che hanno usato la mia macchinetta una volta, non più, signore”.

La casa delle nuvole e del software

Non penso che chi lavora per Microsoft e l’ecosistema connesso sia composto da robottini privi di fantasia e schiacciati da procedure spersonalizzanti. Quelli casomai lavorano nei call center.

Penso che ci siano persone molto preparate, con titoli di studio tendenzialmente di grado elevati, studi parzialmente scientifici alle spalle, di norma ben retribuite e mediamente molto intelligenti. Le quali però devono tenere tutti i giorni la faccia dentro una macchina digitale che rende il mondo un posto piuttosto diverso da come lo percepiamo normalmente.

Diventa un posto in cui le regole del gioco sono fatte dai software e dai servizi, cioè da manufatti dell’uomo (visto che ancora il software e i servizi digitali, nonché i sottostanti algoritmi, li progettiamo noi) che, come tutti i manufatti, hanno dentro di sé l’idea per la quale sono stati progettati. Con un semplice problema: il mondo dentro non ci sta tutto, dei bei pezzi sporgono fuori.

La casa smart non ammette eccezioni

Non è chiaro? Vi faccio un esempio: quando lo IEEE ha definito le tag e i campi usabili per gli Mp3 e poi i produttori di player digitali (software e hardware) hanno creato la musica digitale, c’erano degli assunti culturali che non si rendevano neanche conto di imporre con le loro scelte. Cioè che la musica avesse un titolo, un autore e un esecutore. E che si potesse “chiudere” il 99% della musica con quei criteri, per poi gestire con le raccolte e collezioni speciali il resto. Poi sono andati in India, un posto abitato da 1,3 miliardi di persone e nel bene e nel male con una delle prime 7 economie al mondo. Un posto dove la musica non è fatta così.

Invece, la musica la scrivono e la suonano persone diverse e viene costantemente rimodellata a seconda delle versioni ed edizioni. Semplicemente, non ci sta dentro all’albero di etichette pensato dallo IEEE e dai produttori. Una classificazione che definiva in maniera sbagliata il problema. Serviva un’analisi più ampia e quindi un altro lavoro. Per la musica magari questo è fattibile, ma per il resto del mondo, l’infinito susseguirsi di eccezioni e cigni neri che diamo invece per acquisiti, questo non è possibile.

Non sono un luddista, ma per me il problema di fondo dello smart work è proprio questo: operazionalizzare le attività di lavoro usando strumenti digitali fortemente condizionati dai loro progettisti in un solo contesto che poi è molto diverso da quelli in cui si troveranno ad operare, introduce montagne di problemi. Soprattutto, azzera, come i palazzi delle archistar, le differenze locali.

Ovvero, per dirla in un altro modo, l’approccio dello smart work ammette le differenze e il “genius loci”, ma solo dentro quello che il software e i servizi consentono. Perché dentro software e servizi c’è una “intenzione” che definisce e limita lo spazio di manovra di chi poi ci deve lavorare.

La casa degli ingegneri e dei burocrati

Il problema delle soluzioni e del software, così come degli ingegneri gestionali e dei burocrati in generale, è che per statuto devono definire la realtà, eliminando mondi interi di possibilità.

Se pensate alla “trasformazione digitale” che più che ripercuotersi sta percuotendo la nostra società (le aziende, il lavoro, le famiglie) dalle fondamenta, il senso appare più evidente. Tutto quello che sta dentro la griglia di analisi e il modo di cambiamento della tecnologia, le attività che hanno dei processi da ottimizzare, dei prodotti da trasformare, dei lavori da rendere più efficaci, dei clienti da coinvolgere, passano. E gli altri? E quelli che non vogliono passare? E quelli il cui senso è un altro?

Alla fine di questo non breve viaggio (come al solito) la considerazione finale è semplice. Scrivendo ho capito perché non mi piace il palazzo di Herzog & de Meuron con l’insegna Microsoft/Minecraft, le luci sempre accese e lo smart work che vi accade dentro, esposto come in un Panopticon al contrario sulla pubblica via (chissà cosa ne pensa Michel Foucault), con gli armadietti in un angolo e i diorami Ikea in bella vista, mentre a dettare legge sono il software e i servizi pensati e costruiti altrove, per modelli di problemi, di persone e di situazioni che chissà se esistono e chissà dove stanno.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio