Mamma, ho paura dell’aereo

Ma non sono uno spettacolo? Se fosse vivo Roland Barthes li includerebbe subito nelle sue “Mitologie”.

Ma voi avete paura di volare? Argomento alquanto spinoso, perché movimenta la parte più malmostosa della nostra psiche e per molti è anche foriero di scaramanzie varie, soprattutto se domani dovete prendere un aereo. Come me.

Ieri sera sono andato al cinema con tre amici. A vedere “The Avengers” (straordinario fumettone, penso definizione più precisa sia impossibile). Piacevole serata conclusasi con pizza al trancio da Spontini e poi birretta sui navigli. La vita milanese può essere dolce, quando vuole. Uno degli argomenti dell’allegro convivio erano i risultati preliminari sulle indagini dell’incidente accaduto all’A330-200 di Air France caduto nel mezzo dell’Oceano Atlantico il 1 giugno 2009. Il volo AF447 da Rio de Janeiro (GIG) a Parigi (CDG) è costato la vita a tutte le 228 persone a bordo ed è stato il peggior incidente della storia di Air France. Hanno di recente recuperato le scatole nere e lavorato sul contenuto, in maniera tale da appurare, assieme agli altri dati raccolti dai sistemi radio di terra, cosa sia effettivamente successo nei quattro drammatici (e presumo lunghissimi) quattro minuti e mezzo prima dello schianto sulla superficie del mare.

Non voglio parlare di questo però, quanto piuttosto di un’altra cosa. Il terrore che il volo ispira e che storie come questo rafforzano nella psiche di molti. Insomma, qui si parla della paura di volare.

Una premessa: la ricerca delle scatole nere di questo aereo, che era diventata secondo qualche giornale quasi più un motivo di orgoglio nazionale per i francesi (si sa che con i francesi l’orgoglio nazionale funziona sempre, così come il machismo per gli spagnoli e la voglia di fare il cow boy e risolvere tutto a scazzottate e sbarchi di marines degli americani), non aveva soltanto come fine lo stabilire la verità storica per un senso di completezza e per dare pace ai parenti delle vittime, o per risolvere problemi assicurativi. No, lo scopo è rendere più sicuro il volo per tutti, imparando dagli errori commessi sia nella progettazione degli aeromobili che nel disegno delle procedure di operazione che, infine, nell’addestramento di quegli straordinari professionisti che sono i piloti dell’aviazione civile.

Se ci fossero scatole nere anche nelle automobili (o negli aerei privati, o negli elicotteri, o nelle moto) ci sarebbero probabilmente molti meno incidenti perché ne sapremmo molto di più. E potremmo stabilire delle regole, fare delle modifiche agli apparecchi e addestrare i conducenti in maniera più efficace.

Ma la paura del volo rimane. Ed è difficile da superare. Dopotutto, come dare torto a chi si sente a disagio sapendo di essere in un tubo di alluminio spinto a novecento chilometri all’ora da motori a getto che si trascinano anche un quantitativo di carburante sufficiente a dare fuoco a un paese di medie dimensioni, all’altezza di dieci chilometri dal suolo e con un pugno di strumenti, alcuni concepiti settant’anni fa, alquanto precari ma fondamentali per riuscire a stare in aria e – auspicabilmente – tornare a toccare terra in maniera civile e appropriata. Cioè senza fare un buco nel suolo.

Anche quest’uomo avrebbe preferito essere un anonimo contabile ma poter volare a meno di cento euro a tratta, piuttosto che passare alla storia rimanendo però prigioniero della forza di gravità. (photo by kimberlyfaye on Flickr)

Quand’è che si può dire di aver fatto un buon atterraggio, si chiedevano i piloti una volta? Quando si esce dall’aereo con le proprie gambe, era la risposta più appropriata. E giù risate, pinte di root beer (perché non si beve le 24 ore prima del volo) e gran piatti di carnazza appena grigliata.

Cos’è la paura del volo? Perché alcuni ne soffrono in maniera patologica, quasi imbarazzante, mentre altri paiono totalmente immuni?

Prima un dato, preso dalle statistiche di SITA relative ai bagagli e ai passeggeri circolanti nel mondo l’anno scorso. Nel 2011 hanno volato 2,86 miliardi di persone. Non esiste un numero più preciso di questo, che conta anche i doppioni (e i triploni, e i quadruploni, eccetera), cioè che conta più volte quelli che hanno volato più volte nel corso dell’anno. Io ad esempio nel 2011 ho preso 51 volte l’aereo e conto quindi per 51 persone. Ma gli altri 50 non ci sono. Bisognerebbe avere dei dati su quanti siano i viaggiatori abituali ad alta frequenza rispetto a quelli a bassa frequenza e agli occasionali. Ma come regola minima direi che quasi tutti quelli che hanno volato nel 2011 hanno preso l’aereo almeno due volte in un anno, cioè si divide per due e parliamo di 1,43 miliardi. Ne leverei qualche centinaio di milioni e parlerei di un totale di un miliardo di singoli passeggeri. Siamo 7 miliardi sul pianeta, quindi non pochi.

Ecco, questo settimo della popolazione mondiale che vola si porta in aria un patrimonio di ansie e di terrori, di paure e di stress. Ci sono parecchie persone che non prenderebbero un aereo neanche sotto minaccia, ed è un vero peccato perché, non solo si perdono l’occasione di andare in posti lontani non raggiungibili con altri mezzi di locomozione (provate l’Australia in nave, se vi riesce), ma soprattutto si perdono l’emozione di trovarsi sospesi a dieci chilometri sopra il terreno (o il mare, più probabilmente, visto che la superficie terrestre è prevalentemente coperta dall’acqua) e guardare le cose da quella prospettiva che ha affascinato l’umanità fin dalla notte dei tempi.

Secondo me il volo è una delle cose che definiscono questa nostra epoca moderno-contemporanea, che ci rende davvero unici rispetto alla storia passata dei tempi di, chessò, Napoleone piuttosto che Giulio Cesare, dei Maya o degli Assiro-Babilonesi. Possiamo dire, in un improbabile redde rationem finale, “Noi siamo quelli che volavano”, o almeno sulla superficie terrestre. Più avanti si vedrà.

Abbiamo persino inventato gli orologi degli aviatori, quelli che dicono due ore perché tengono il fuso orario di casa e quello di dove ci troviamo! (Poi vi racconto chi è stato e dove, gran bella roba). Insomma, il volo ci definisce, definisce la nostra società, la nostra economia, la nostra storia, persino e soprattutto le nostre guerre. E il vostro ospite in queste pagine, cioè io, non amo per niente le cose militari che permettono all’uomo di privare della vita un altro uomo, quindi dei prodigi delle macchine per la morte, per quanto affascinanti, qui non se ne parla se non di sfuggita e proprio quando non se ne può fare a meno.

La paura del volo però è un’altra cosa. Non c’è niente di più eroico che vedere i volti tesi, tirati, duri, di donne e uomini adulti che vivono una piccola frazione terribilmente reale dell’esperienza di un condannato a morte nei minuti precedenti il decollo. E la tensione che fa digrignare i denti, il senso di vuoto allo stomaco mentre il velivolo si alza, spinto dal sibilo intenso dei motori. Gli occhi che si chiudono all’improvviso, la testa che scatta quasi a porgere le spalle al pericolo durante gli improvvisi stalli e salti dell’aereo lanciato nell’atmosfera.

Catherine Deneuve: secondo me è la donna più bella del mondo. Lo è stata e lo è tutt’ora. Ciò non toglie, però, che preferire non schiantarmi in aereo con lei… (photo by sokaris73 on Flickr)

È una vita dura, infernale, che rientra nella categoria del “chi me lo fa fare”, in cui non c’è disciplina e razionalità che tenga. È paura di morire bella e buona, “fifa blu” come diceva mia nonna. Qui parte lo scienziato o l’antropologo e comincia a spiegare che l’evoluzione naturale, la parte di rettile dentro di noi, il sistema limbico, i nervi, la percezione dello spazio, i comportamenti istintivi etc. etc. Oppure parte l’esperto di statistiche del piffero che spiega quali sono le fasi più pericolose del volo (e non sono mai quelle che vi aspettate e temete voi, ovviamente), oppure quali le posizioni più sicure in aereo, i posti da cui ci si alza con le proprie gambe anche in caso di mezzo sfascio.

Altrimenti, arrivano i fatalisti. Metà religiosi (c’è tutta una teoria di santi che si possono invocare prima, durante e anche dopo il volo per avere protezione e per offrire pegni e ringraziamenti, e comunque in quell’ottica anche se va male tanto dopo si va in cielo a trovare i nostri antenati, una condizione sulla carta felice anche se non sempre auspicabile), metà atei materialisti (tanto prima o poi deve succedere, è un attimo e poi c’è il nulla quindi perché ti preoccupi, e comunque le statistiche giocano tutte a tuo favore, il calcolo delle probabilità dice che va tutto bene, etc. etc.).

Ci sono gli ardimentosi, quelli che gettano il cuore oltre l’ostacolo e, anche se piegati dal timore, si mettono pancia in dentro e petto in fuori e via, all’assalto del volo! Ci sono i super-timorosi, che si fanno vincere dall’emotività e piombano in stati da psicofarmaci. Alcuni ambosessi si aggrappano al vicino di poltrona, perfetto sconosciuto, e gli staccano pezzi di avambraccio con le unghie: posso testimoniare che succede e se guardate il mio braccio destro ne potete avere la prova provata. O ti guardano con l’aria smarrita di una povera bestiolina, come in cerca di conferme che sì, va tutto bene, non stiamo per schiantarci tutti in un’orrenda palla di fuoco e metallo incandescente. Almeno, non questa volta.

Frugando nella memoria dei pensieri strambi e sbilenchi che si percepiscono in aereo, soprattutto nelle fasi critiche, c’è una serie di momenti degni di nota. Una volta, dopo un fortuito upgrade in business class con un collega per il volo che andava da Parigi (CDG) a Los Angeles (LAX), aspettiamo una ventina di minuti la partenza perché sta arrivando un VIP. Con qualche cerimonia e un accompagnatore palestrato arriva Catherine Deneuve avvolta in una lunga stola di visone, che si va a sedere nella prima fila, accompagnata da una hostess cerimoniosa. Il primo pensiero del mio collega? Speriamo di non schiantarci questa volta, sennò verremo ricordati come i 200 coglioni morti assieme a Catherine Deneuve.

Un’altra volta, un caro amico mi racconta le sue tribolazioni nei voli, per i quali nutre il più cieco terrore pur avendo fatto numerosi viaggi intercontinentali, aver guidato per anni la moto (infinitamente più pericolosa di un aereo: paragonare i due è l’equivalente statistico del rischio che ci corre tra la roulette russa contro farsi una doccia) e aver condotto per anni la vita del pendolare con Parigi, dove ha sede la casa madre dell’azienda per cui lavora. Ma quella volta noto una cosa in particolare: le volte che sua moglie è stata incinta delle sue due meravigliose bambine, l’ansia e la paura del volo è salita a livelli cosmici.

Perché?

La risposta per me è chiara e l’ho provata anche io più volte. La paura del volo in realtà è un contenitore vuoto, dove mettiamo le nostre ansie. Certo, c’è chi ha una patologica e naturale paura, ma è una percentuale bassissima. Gli unici che dovrebbero forse prendere dei calmanti. Gli altri hanno paura del volo perché il volo è un’opportunità per le loro ansie e paure più luride e profonde di strisciare fuori dal loro inconscio e venire a mordergli le caviglie. Uno che non ha niente da perdere, è spensierato e tutto sommato se ne frega anche un po’, vola allegramente. Poi, gli metti addosso due responsabilità, lo tieni sotto stress per qualche anno sul lavoro, gli fai fare famiglia-mutuo-investimenti-in-borsa-carriera-ma-magari-se-va-male-ti-licenziano, insomma gli riempi la testa di pensieri, e all’improvviso il volo diventa pericoloso, temibile, nemico. Perché il vuoto amplia lo spazio a disposizione della paura?

Gli psicologi aggiungono che a temere il volo sono anche e soprattuto quelli che non riescono a lasciarsi andare, quelli che vogliono sempre essere in controllo, quelli che evidentemente temono che, se non ci pensano loro, qui finisce davvero male. Ci credo, un po’ forse sono così anche io. Perché l’esperienza del volo di linea è poca cosa dal punto di vista della grande lotteria della vita, ma se non se ne conoscono le regole, i principi fisici che lo regolano, la storia e gli estremi, è pur sempre un’ombra che si muove nel buio. Qualcosa che noi, mammiferi diurni, siamo costruiti per temere e cercare di scacciare.

Ecco, scusatemi, mi sono rimesso a fare il giornalista d’accatto, l’antropologo da carta stampata, con questi tentativi di cercare nella scienza spiegata (male) ai minori la risposta a problemi ben più grandi.

Se siete arrivati fino qui e ancora non avete dovuto respirare dentro un sacchetto di carta, forse vi sarete chiesti se ho paura di volare. Domanda più che lecita, visto che soffro anche di vertigini: non salgo mai sulla scala per cambiare le lampadine bruciate o tirare giù il cambio stagione dall’armadio. Ho paura del volo, allora? Certo, lo trovo un’esperienza sia affascinante che istintivamente innaturale. La mia curiosità e la passione per il volo nasce proprio da questo: l’attrazione di qualcosa che percepisco come potenzialmente pericoloso.

Ho passato le mie belle notti legato a diecimila metri di quota, sopra l’Atlantico, a rigirarmi per quanto la cintura di sicurezza lo consentisse, chiedendomi a ogni sobbalzo se sarei mai arrivato a destinazione. E cercando di fugare le immagini fantasiose certo ma sicuramente agghiaccianti che la mia mente formava di come sarebbe stata l’esperienza della caduta e dello schianto. Ho una fantasia piuttosto visiva, tendo a dare realismo alle immagini che i miei neuroni dipingono: dovreste vedere come sono vividi nella mia mente quelle frazioni di secondo durante lo schianto delle lamiere in cui l’aereo si apre davanti a te come un fiore mentre le fiamme, l’acqua e il metallo ti investono come un’enorme mano fredda prima di cancellarti per sempre.

Poi mi sono chiesto tutte le volte: perché queste immagini? Che comunque mi fanno vivere male e sono anche abbastanza inutili, visto che non sto pilotando io? (Meglio che non stia pilotando io, con Flight Simulator e X-Plane mi riescono solo i decolli, e anche quelli malamente). Cosa succede, sono stressato per qualcosa?

La fortuna è che nei miei primi voli sono stato molto sereno e l’esperienza nel complesso la definirei quasi lirica. Per dire, una decina di anni fa su intercontinentale bersagliato dal maltempo che ci ha fatto saltellare per due ore di fila: per me, a sedile tutto reclinato, è stata una delle più lussuriose e goduriose sedute di poltrona-shatsu della mia vita. Basta poco per ripensare ai momenti belli e sganciarsi dalla paranoia; basta poco per invertire una tendenza.

Quella che avete letto è una lunga storia piuttosto intimistica (me ne scusino i miei pochi lettori) ma la paura è un’esperienza per definizione intima e personale, non credo ci sia altro modo per raccontarla. Come superarla? Con un pensiero bello da portare con sé, che ci faccia riempire in maniera positiva quel contenitore psichico vuoto che l’aereo ci propone e di cui le nostre paure vorrebbero subito impossessarsi. È un consiglio da Bacio Perugina? Non lo so: voi tenetelo a mente la prossima volta che vi legate a una poltroncina e sentite il sibilo dei motori salire, subito prima del calcio che vi scaraventa in aria. Potrebbe tornarvi utile.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio