A caccia del moto perpetuo – Parte I

Allacciatevi forte le cinture di sicurezza, perché stiamo per cavalcare il tempo e le tecnologie usate per segnarlo. Addirittura con foto!

Nel 1833 Antoine LeCoultre aprì il suo laboratorio a Le Sentier, piccolo villaggio della Vallée de Joux nella Svizzera sud-occidentale, vicino a Losanna. Uomo geniale, di grande capacità tecnica, aveva individuato nella realizzazione di macchine per produrre componenti il suo lavoro ideale. Già questa, a pensarci bene, è un’idea strepitosa: anziché produrre qualcosa, produrre gli strumenti per far produrre qualcosa agli altri. E di macchine invero straordinarie Antoine ne realizzò parecchie, compresa la prima in grado di realizzate pignoni tagliati automaticamente con grande precisione. A lui si deve anche la realizzazione del primo strumento in grado di misurare un micrometro, cioè la millesima parte di un millimetro. Siamo nell’ottocento e la millesima parte di un millimetro è una grandezza enorme nella sua piccolezza. Per dire, oggi  quando si parla di micrometri si sta parlando di microchip.

Il buon Antoine era un uomo con talento da vendere e aveva anche un certo bernoccolo per l’orologeria (aveva frequentato la scuola senza poterla però finire) al punto da aver vinto la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Londra del 1851 con le sue innovazioni tecnologiche. E la Gran Bretagna all’epoca era considerata la patria dell’orologeria, non la Svizzera. Antoine però, diciamocelo, non era tagliato per gli affari. Tanto che la sua azienda nel 1858 era sull’orlo del fallimento, della chiusura. Qui venne l’intuizione di trovare un paio di soci, sempre svizzeri della zona della Vallée de Joux, cambiando la società in LeCoultre, Borgeaud & Cie. Fabrique d’horlogerie en blanc. Una scelta intelligente, portata avanti anche dal figlio Élie, che fece crescere e strutturò in modo più moderno l’azienda.

Vennero infatti modernizzati i processi produttivi e l’azienda fiorì fino a divenire la più importante della valle mentre il metodo produttivo dell’Établissage (la realizzazione della divisione del lavoro per la produzione delle componenti secondo uno schema proto-industriale) si consolidò anche in quella parte della Svizzera. Ci furono resistenze, non tutto andò sempre liscio, ma è normale che sia così. E gli anni passarono: Antoine e il suo socio Auguste Borgeaud si ritirarono, l’azienda divenne così LeCoultre & Cie mentre la specializzazione della Manifattura si attestò nella realizzazione di calibri con complicazioni sempre più ricche. Fu un ventennio proficuo, vennero realizzati 350 calibri, un po’ come se la Ferrari realizzasse 350 modelli di motore diverso per le sue auto. Molti erano semplicemente varianti con grosse complicazioni dei calibri-base, ma il fenomeno rende comunque l’idea dell’abbondanza e del fermento. La Grande Maison diventò l’attività principale della zona, ci lavoravano centinaia di persone.

Jacques-David, il nipote del nostro Antoine, nel 1906 divenne direttore generale ed ebbe un’altra felice intuizione. Perché non cambiare settore e iniziare a produrre strumenti di misura del tempo più diversificati, anziché solo per taschino o da signora? Siamo in Svizzera, non dimentichiamocelo e, anche se non è stato il Paese che ha inventato l’orologio, a partire dalla fine del seicento la Svizzera comincia a diventare un centro nevralgico dell’industria orologiera mondiale (vale a dire: europea). Al passaggio tra otto e novecento la produzione di orologi e delle loro componenti aveva raggiunto un notevole livello di espansione tra le Alpi: gli orologi da tasca e i primi orologi da polso (prevalentemente femminili) stavano diventando sempre più diffusi, il progresso tecnologico favoriva la realizzazione in serie di questi apparecchi. Il mercato era dunque ampio (gli orologi venivano usati per scopi molteplici, dalla navigazione marittima sino alla gestione degli apparati industriali) e aperto all’innovazione. L’orologio diventa anche gioiello: se ne accorgono alcuni grandi nomi che divennero clienti di LeCoultre & Cie. In Svizzera si produceva il meccanismo dell’orologio ed eventualmente anche tutto il resto, marchiandolo poi  Cartier, Patek Philippe e Vacheron Constantin. Si industrializzava ulteriormente la pratica tutta svizzera di produrre orologi o componenti di orologi per conto terzi.

Per acquisire un know-how adeguato, come si direbbe oggi, e crescere più velocemente mettendo direttamente un piede nel mercato, il buon Jacques-David pensò bene di appoggiarsi sempre più a una piccola maison che produceva già orologi, in particolare cronografi, con i movimenti super sottili di LeCoultre. Si trattava di Edmond Jaeger, un alsaziano trapiantato a Parigi e uomo di una certa ambizione. Le foto dell’epoca ritraggono entrambi come attempati signori di una certa età, ma in realtà nei loro anni verdi erano stati giovani scapestrati che avevano cercato di aggredire con forza il mercato e scavarsi un ruolo di rilievo. Avevano entrambi anche una certa sovrapproduzione di testosterone, perché i primi rapporti tra i due sono di competizione forte, di sfide quotidiane. Poi, come spesso capita, Edmond e Jacques-David scoprirono di avere forti contrasti perché tra loro più simili che non diversi.

Così, i due così si corteggiarono, litigarono, si lasciarono e si ripresero sino a che non si misero definitivamente assieme, commercialmente parlando, e nel 1936 formarono la Jaeger-LeCoultre, azienda di diritto svizzero specializzata nella produzione di orologi. La loro prima innovazione di mercato fu di pochi anni prima, il 1929: la creazione di un orologio da tasca con il calibro più piccolo al mondo, il Calibro 101. Il buongiorno, come si dice, si vede dal mattino.

Al lavoro come esperti artigiani, cominciarono a realizzare un numero sufficientemente elevato di orologi, ponendosi con intelligenza nella fascia media e alta del mercato di inizio secolo. Erano sostanzialmente già assieme quando scoppiò la prima guerra mondiale e le trincee d’Europa si riempirono della migliore gioventù mandata al macello e massacrata da nuove, inedite armi di distruzione. Gli aeroplani, assieme ai palloni aerostatici di napoleonica memoria, diventarono armi strategiche. In questo periodo nacque l’idea alla base della dottrina della superiorità dell’arma aerea, che poi sarebbe stata applicata in maniera sistematica nelle guerre coloniali d’Africa e quindi nel secondo conflitto mondiale. Soprattutto, per quanto riguarda la storia dell’orologeria, si complicò la vita dei soldati e degli ufficiali. L’orologio era molto, molto utile. Serviva per coordinarsi, perché gli ordini di attacco venivano dati in anticipo, stante gli scarsi mezzi di comunicazione, e consistevano in istruzioni dettagliate e anche di un’orario da seguire per manovrare. L’orologio doveva essere visibile senza dover essere tolto dalla tasca e poi rimesso a posto. Si perdeva troppo tempo. E soprattutto i soldati avevano bisogno di entrambe le mani libere per tenere il fucile.

Insomma, prendendo spunto dal modo in cui le donne portavano i loro piccoli orologi a mo’ di gioielli legati a dei braccialetti, e sostituendo il braccialetto con un bracciale di cuoio, nacque l’orologio meccanico da polso moderno. E, con esso, una nuova categoria di problemi per gli orologiai. Primo fra tutti, la precisione, cioè la regolarità: gli orologi da polso si muovono in maniera solidale con il braccio, quindi il meccanismo deve compensare differenti effetti della gravità. Infatti, quando si muove il braccio cambia l’orientamento nello spazio dell’orologio e i meccanismi al suo interno si muovono a contrasto con un sistema di forze completamente differenti. Ingranaggi che prima erano sopra ad altri ingranaggi, si trovano sotto e viceversa. Cose così. Negli orologi da tasca questo non succedeva, perché i meccanismi passavano la maggior parte del tempo sempre nella stessa posizione, appunto nel taschino. Quando arriva l’orologio meccanico da polso, il problema della regolazione di marcia si fa un affare complesso.

Secondo problema: la robustezza. Gli orologi da tasca sono più protetti di quelli da polso: non solo perché stanno per lo più in tasca, ma anche perché spesso hanno un coperchietto che protegge il vetro. Gli orologi da polso sono invece esposti, vulnerabili, quasi in bilico sul finire del braccio, così vicini alla mano. Non è un caso se chi è di prevalenza di mano “destra” porta l’orologio a sinistra e se i mancini, viceversa, lo portano a destra: l’orologio si tiene sul polso del lato meno usato del corpo per ridurre il rischio di sbatterlo accidentalmente. E nonostante questo lo si sbatte un sacco di volte anche così. Oggi chi se ne importa, uno Swatch costa 50 euro, ma una volta era diverso.

Gli orologi un tempo, non ci dimentichiamocelo, erano per sempre. Nella storia recente sono stati un attributo di alta necessità. Solitamente nell’arco della vita di un adulto l’orologio era uno solo, veniva regalato quando la persona usciva dall’adolescenza – una sorta di rito di passaggio – e si portava per tutta l’esistenza. Addirittura con passaggi generazionali da nonno a nipote. In tempo più recenti, dopo la seconda guerra mondiale cioè, l’orologio “di prestigio” è diventato una sorta di rito pagano di iniziazione per la borghesia moderna che, finalmente, poté permettersi i costosi segnatempo degli aristocratici, dei nobili e dei militari (senza contare i capostazione, corpo paramilitare per definizione). Prima per il volgo c’era solo l’orologio della piazza. In ogni caso, il segnatempo meccanico dei nostri bisnonni era come il matrimonio di una volta: piuttosto si rompe ma di sicuro non si può sciogliere.

Torniamo a Jaeger e a LeCoultre. Siamo alla fine del 1931, inizio 1932, più o meno 80 anni fa. Gli ufficiali britannici amano giocare al Polo, quello sport in cui si cavalca rincorrendo una palla con lunghe mazze, vestiti come si vestiva Carlo, il principe di Galles, quando era ancora sposato a Lady Diana Spencer; no, non il kilt e la giacca grigia o con la divisa da Grand’ammiraglio, ma con la maglietta a maniche corte (non a caso caso chiamata “polo”) con i pantaloni da cavallerizzo bianchi, gli stivaloni alti neri, i guantini con le dita scoperte e il caschetto da pirla. Il Polo era lo sport di quelli benestanti, che possono spendere. Gli ufficiali britannici erano di quelli che per il Polo spendevano. E spaccavano un sacco di orologi. La cosa non faceva loro piacere (non erano mica sciuponi) ma pare non protestassero troppo. Era evidente che ci fosse un bisogno inespresso di orologi a prova di Polo.

I due orologiai lo intuirono e si misero a pensare. Loro producevano e commercializzavano calibri di varie dimensioni (ad esempio avevano a disposizione il summenzionato Calibro 101, il più piccolo movimento meccanico al mondo con 74 elementi che pesa nove decimi di grammo, oppure il Calibro 124 a doppio bariletto, con otto giorni di riserva di carica), insieme facevano una maison “completa” che in orologeria si chiamano “Manifattura”. Addirittura arrivavano a realizzare anche i macchinari di precisione che gli servivano per la produzione. È un esempio perfetto di integrazione verticale, un po’ come fa Apple oggi con il Mac e con l’iPhone: è tutta roba progettata internamente. Le economie di scala in questo modo diventano una risorsa unica: permettono di vendere “motori” (cioè i calibri completi o come ébauche) ai terzi e di investire i guadagni in ricerca e sviluppo di nuovi calibri ancora più moderni. Il giochetto ai due riusciva piuttosto bene. Gli affari crescevano, si poteva investire. Era il momento di cercare nuovi mercati, di seguire una strategia “Oceano blu”, cioè di andare verso acque aperte, incontaminate. Inventare bisogni da soddisfare. Sembra la storia dell’iPod, invece è tutta un’altra storia.

I due orologiai decisero che era arrivato il momento di fare un nuovo orologio “innovativo”, perché l’unico punto di partenza possibile allora come oggi era questo. All’epoca piccolo era bello (chissà perché, invece, oggi vanno certi orologi con dimensioni gargantuesche: sembrano da parete più che da polso, forse siamo tutti ingrossati senza accorgercene?) e i due si misero di buona lena per farlo molto piccolo. L’idea era di proteggere il quadrante – soprattutto il vetro – dai colpi secchi e diretti che può prendere con le mazze ruotanti del Polo. Non erano moralisti, non gli venne il dubbio che il Polo fosse uno sport da debosciati che non sarebbe stato opportuno incentivarlo. Loro invece ci videro una opportunità e la perseguirono, nonostante in Svizzera il gioco del Polo avesse lo stesso tasso di popolarità delle gare di Mah-Jong o dei corsi in piscina per diventare Pêcheurs de perles.

Come si sarebbe potuto fare questo orologio per giocatori di Polo? Lo sportellino che si apre, sulla falsariga di quello usato negli orologi da tasca, venne scartato. Non pareva un’idea conseguente. Allora ci si rimise a studiare: bisogna trovare il modo di proteggere ma non di chiudere. Casomai di nascondere. Bingo! Ecco l’idea: l’orologio ruota sul suo asse e si ribalta. Il lato frontale è un tradizionale orologio di forma rettangolare, mentre il retro, il rovescio per così dire, è la sua protezione. Per ruotare, la cassa viene incassata (scusatemi il bisticcio) in un fondello con due binari lungo i quali farla scorrere e ruotare. Il meccanismo è ingegnoso, ha una sicura così non si apre da solo, e piacque fin da subito anche senza bisogno di realizzare costosi prototipi. Soprattutto, ha un nome che è tutto un programma: Reverso.

Idea geniale, certo, anche invenzione straordinaria, che unisce alla tecnica degli orologi intesi come meccanismo anche un certo talento meccanico più in generale. Ci voleva una coppia svizzero-francese per immaginarsela. Soprattutto, ci voleva un’azienda innovativa per intuire, vedere, creare, raffinare, testare, migliorare e produrre un oggetto così straordinario. Il Reverso divenne rapidamente un mito: è un perfetto orologio unisex, perché di dimensioni contenute, permette di esibire la dedica serigrafata sul retro (se ce n’è una) facendolo ruotare, si fa da subito la fama di orologio elegante e al tempo stesso sportivo. Un po’ come oggi sono quei cipolloni di Rolex e Omega, e soprattutto i vari Panerai grossi come padelle; sì lo so, l’ho già detto, però avete presente: sono davvero grossi visti dal vivo. Roba che serve una camicia fatta apposta per portarli.

L’invenzione del Reverso, che negli anni è diventato il prodotto iconico di Jaeger-LeCoultre sino quasi a soffocare la maison per il troppo successo, è in realtà solo l’inizio di questo racconto. Intendiamoci, la storia di quell’orologio è legata anche a uno dei primi casi di marketing intelligente. Il Reverso è stato reinventato decine di volte, con edizioni portatrici di complicazioni sempre più ricche e singolari, crescendo anche di dimensioni (c’è una recente versione “maxi” più grande, più adatta allo spirito dei tempi che, come sappiamo, privilegia questi orologi davvero grossi eccetera eccetera), con calendari perpetui, riserve di carica per otto giorni, lunari, solari, incisioni e laccature di pregio, addirittura versioni con doppio quadrante (uno davanti e uno dietro) realizzato con due movimenti, permettendo così di mostrare due fusi orari ma mai contemporaneamente e soprattutto vanificando l’effetto di “protezione” del retro metallico. Si chiama Reverso Duo ed è del 1994. Ma poi, tra i possessori di Reverso, che è come dire tra i possessori di una Duetto “Osso di seppia” dell’Alfa Romeo, chi è che veramente lo porta con il quadrante protetto, cioè nascosto?

Torniamo ai nostri Jaeger e LeCoultre. Gli orologiai svizzero-francesi erano lì che si complimentavano per la gran genialata che avevano avuto. È una specie di Polaroid che possiamo immaginare: due uomini aggressivi, potenti, molto capaci nel loro mestiere e abbastanza sospettosi l’uno dell’altro, si guardano al centro della stanza, in piedi. Davanti a loro c’è il successo che aumenta ogni giorno che passa. Sanno di aver azzeccato l’idea buona. Sanno che Reverso è da solo un’azienda, potrebbe andare avanti all’infinito. Si stringono la mano e forse cominciano a fidarsi un po’ di più. Questo è il primo passo per la definitiva fusione delle due aziende. Loro si mettono a pianificare l’evoluzione del prodotto, è chiaro, ma non è che prima erano stati fermi. In realtà avevano alle spalle ambizioni, sogni ed esperienze comuni forti. Quasi pazze. Nel loro rapporto iniziato allo scoccare del novecento, infatti, tra alti e bassi, collaborazioni e defezioni, avevano anche trovato il modo di portare avanti un progetto straordinario, ambiziosissimo. Volevano commercializzare l’orologio a moto perpetuo. Una cosa incredibile, da lasciare a bocca aperta, se ci pensate. Il moto perpetuo. Che fantastica frase, densa di significati, di sogni, di sfide. Cosa avevano fatto? Cos’è l’Atmos? Ne parliamo la prossima volta.

La seconda parte.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio