Stabilità senza idee

Tanto non piovve che tuonò. Non è un errore di stampa. La legge di stabilità del governo Letta è talmente piatta, sciapa, che non ci si crede che stia provocando un piccolo terremoto politico. Stefano Fassina, sottosegretario all’economia di infrangibile fede keynesiana, minaccia le dimissioni per una questione di ruolo e di onestà intellettuale: è convinto che non si debba “tagliare la spesa pubblica”, è pronto a lasciare un governo in cui si sente un corpo estraneo. Mario Monti, ex premier, molla il gruppo di Scelta Civica (il partito settimino cui ha personalmente dato vita), perché in dissenso con l’ala democristiana dello stesso. La disputa qui è di più difficile decrittazione. Monti voleva garbatamente “pungolare” l’esecutivo, i democristiani ancor più garbatamente sostenerlo. L’ex premier che appena un mese fa aveva detto che la sua avventura politica acquistava un senso in ragione dell’arrivo di Letta al governo e del metodo delle larghe intese (affermazione impegnativa), ora se ne va in dissenso con i pretoriani di Letta.

La cosa incredibile non è tanto che queste cose accadano. La cosa incredibile è che accadano sull’onda di una legge di stabilità nella quale non c’è granché né di controverso né di innovativo. Intendiamoci: meglio far nulla che far male. Fra il governo “attivista” su Alitalia e il governo “immobilista” sulla finanziaria, preferisco di gran lunga il secondo. Primum non nocere.

È difficile, però, costruirsi un’identità politica contro questa finanziaria. Ci sono grandi interventi “keynesiani”, spesa per investimenti, iniziative forti per la redistribuzione del reddito, nuove tasse per i più abbienti? Sostanzialmente, no. Ci sono privatizzazioni, riduzione lineare delle imposte, una seria revisione della spesa pubblica, un inizio di ragionamento su come servizi come scuola e sanità potrebbero essere resi più efficienti restituendo libertà di scelta agli italiani? Neppure.

Per quanto si capisce dai giornali (il testo è ancora avvolto nella nebbia), c’è qualche mancia, un po’ di incentivi, una micro-operazione sul cuneo fiscale, un pasticcio per ora incomprensibile sulla tassazione degli immobili, e la salvaguardia di qualche meccanismo semi-automatico per il riaggiustamento dei conti che va nella solita direzione (aumento della pressione fiscale complessiva) toccando i soliti tasti (deduzioni e detrazioni).

Non c’è, insomma, un’idea. Quale idea avrebbe potuto esserci? Perdonate l’autocitazione, ma una l’avevamo lanciata Natale D’Amico ed io, senza troppa fortuna: una riduzione temporanea (3 anni) delle imposte sui redditi del 15%, su persone fisiche e persone giuridiche, da finanziarsi coi proventi da privatizzazioni. Ci venne risposto che i proventi da privatizzazioni non potevano andare a finanziare la spesa corrente, e dunque sanare gli ammanchi da minori entrate. La legge di stabilità del governo Letta, se ho ben capito, prevede proprio questo: (poche) privatizzazioni (immobiliari e probabilmente destinate a rivelarsi una partita di giro con la CDP), per finanziare la spesa. Senza ridurre le tasse.

La proposta di D’Amico e mia aveva fatto alzare più di un sopracciglio. Il ragionamento che c’è dietro è duplice. Da una parte, il processo di revisione della spesa pubblica è evidentemente complicato, e bisogna creare un incentivo più forte della religione dei “vincoli europei” per renderlo possibile. Un taglio alle imposte non irrilevante, per tre anni, crea verosimilmente una pressione popolare affinché le tasse non risalgano più: questo potrebbe essere un incentivo forte, sul piano politico, per arrivare davvero, nel medesimo arco di tempo, a un taglio della spesa che renda sostenibili aliquote più basse. Dall’altra, c’è un problema, rilevante, di legittimità popolare delle politiche volte alla riduzione della spesa. Le occasioni in cui il perimetro dello Stato è stato ridotto, e non ampliato, nella storia politica moderna si contano sulle dita di un mano. Se ripensiamo tuttavia a quanto è accaduto nell’Inghilterra thatcheriana o nella Svezia a governo conservatore, è abbastanza evidente che in quei casi non venne chiesto ai cittadini di stringere la cinghia per il gusto di stringere la cinghia. La Thatcher propose agli inglesi l’idea di una società diversa, nella quale la liberazione dall’abbraccio dello Stato provvidenza coincideva con un’esplosione di opportunità per i singoli. Nella sua personale contabilità, per il singolo il “meno Stato” voleva dire qualche certezza in meno, ma anche meno imposte, una vita meno occlusa da regolamenti tediosi e incomprensibili e quindi più spazio per provare a realizzarsi.

Oggi l’austerità, nel discorso pubblico, è un’altra cosa. La riduzione del perimetro pubblico non coincide con nessuna speranza, sul piano individuale. E nemmeno è una riduzione del perimetro pubblico, a dire il vero: semmai si tratta, nelle versioni migliori, di una “messa a regime” della spesa, con aumenti calmierati rispetto a quelli tendenziali. Non si aprono spazi per l’iniziativa privata: e non a caso non c’è crescita. Per inciso: quel pezzo della classe politica che parla di “crescita” lo fa in modo confuso, e a dire il vero incomprensibile all’elettore comune. La “crescita” sembra essere un fatto di statistiche, e le statistiche materia negoziale con l’incombente poliziotto dei conti europeo. Che crescita significhi, concretamente, aumento delle attività economiche, e quindi dei beni e servizi fruibili da ognuno, e delle eventuali opportunità di impiego a disposizione di chi le cerca, è un dettaglio apparentemente irrilevante.

Negli anni scorsi si è a lungo biasimata la deriva “tecnocratica” dell’Europa. È accaduto qualcosa di peggio: nel vuoto delle leadership e delle idee politiche, si è avuta una deriva “tecnocratica” del discorso pubblico. La nostra classe dirigente non sposa, neanche nella legge di stabilità, una impostazione liberista. Continua a praticare l’interventismo di sempre (si vedano i casi Alitalia e Telecom, perfetto indice della perdurante mentalità da partecipazioni statali), ma lo fa negando ai Fassina la soddisfazione dello statalismo dichiarato ed esibito che bramerebbero. A coloro che vorrebbero aumentare la spesa pubblica non si oppone una visione per la quale la spesa andrebbe ridotta per restituire spazi al mercato e alla società, ma al contrario una blanda retorica del rigore, peraltro disponibile a qualsiasi compromesso purché si salvino le apparenze.

La mancanza di prospettiva dei nostri leader rischia di mettere vento nelle vele dei partiti di protesta e di determinare un ulteriore scollamento fra rappresentati e rappresentanti. E rischia anche, man mano che il dibattito si farà ancora più convulso e disordinato, di farci dimenticare una banale verità. Viviamo in Stati che non hanno mai speso tanto e non hanno mai tassato tanto i loro cittadini. Forse questo dato di fatto non è del tutto trascurabile, rispetto alla crisi che stiamo vivendo.

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.