La nuova vecchia Cassa del Mezzogiorno

È difficile dire, oggi, quali saranno i lasciti più duraturi del governo Letta, esposto com’è a una tempesta politica permanente. Le larghe intese potrebbero valerci la “pacificazione” della politica italiana, rivelarsi un passaggio inevitabile verso un “bipolarismo normale”, o il ritorno al più antico consociativismo, oppure ancora soltanto un interludio, lasciar tutto come prima una volta scaduto il tempo dell’esecutivo. Riguardo alle policy, per ora c’è poco da segnalare. Chi è interessato agli effetti fiscali delle decisioni prese sino ad oggi può leggere questo paper di Diego Menegon.

Una eredità permanente del governo Letta sarà probabilmente la rinascita della Cassa del Mezzogiorno. L’Agenzia per la coesione territoriale, che oggi è ai nastri di partenza, altro non è che la riproposizione della stessa idea, aggiornata per i tempi che corrono. Un atto formale del governo sancisce che sarà “staffata” con 120 persone: un numero che rivela ambizioni non piccole, specie in tempi di magra per la PA come sono questi.

Nel suoi quarant’anni di vita, si stima che la Cassa del Mezzogiorno abbia speso per lo sviluppo del Meridione 279.763 miliardi di lire (circa 140 miliardi di euro), con una spesa media annuale di 3,2 miliardi di euro. Si stima che mezzo punto di PIL sia stato dedicato, per quarant’anni, anno dopo anno, a rincorrere la balena bianca dello sviluppo delle aree depresse. La Cassa, nata come strumento di finanza straordinaria, interveniva a vantaggio delle sei regioni meridionali, delle isole, e di alcune province del Lazio.

È tesi comune che la Cassa abbia avuto una prima fase “buona”, effettivamente votata alla modernizzazione del Sud attraverso la creazione di grandi infrastrutture, cui ha fatto seguito un più lungo periodo nel quale essa è diventata luogo d’incontro privilegiato fra la classe politica meridionale e le sue clientele, protetta dalla plastica giustificazione della “politica industriale”. Quale che sia la valutazione storica che si dà dei primi interventi, questa involuzione era tutto fuorché imprevedibile: è assai improbabile che l’allocazione di una gran massa di quattrini da parte di un attore fortemente condizionato dalla politica possa preservarsi “libera” dallo scambio politico. Rispetto ai risultati, vale forse la pena ricordare quali fossero gli obiettivi, individuati da De Gasperi in un passo della sua relazione al disegno di leggo con cui, nel 1950, fu istituita:

«L’esigenza di creare le condizioni necessarie perché l’annosa questione meridionale trovi modo di avviarsi verso una soluzione definitiva».

Sessantaquattro anni dopo, siamo ancora qui che ci avviamo.

La nuova Agenzia per la coesione territoriale non ha, ovviamente, a disposizione le risorse pubbliche che aveva la Cassa. Il suo scopo è il«“monitoraggio sistematico e continuo dei programmi operativi e interventi della politica di coesione», nonché «il sostegno e l’assistenza alle amministrazioni che gestiscono programmi europei e nazionali». Detto piatto: evitare che le amministrazioni si lascino scappare preziosi fondi europei, coordinandone le iniziative spese. L’antesignano storico è l’ultima reincarnazione della vecchia cassa, l’Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno nata sulle sue spoglie nel 1986, che come principale ragion d’essere aveva «il finanziamento delle attività di partecipazione, assistenza e formazione svolte dagli altri enti di promozione per lo sviluppo del Mezzogiorno oltre che dai soggetti pubblici e privati». Venne chiusa da Luigi Spaventa, che in un articolo del 2009, quando di una nuova Cassa del Mezzogiorno parlava il centro-destra all’epoca al governo, scrisse: «Considerando gli anni dell’Agensud, non c’è bisogno di essere leghisti per sentirsi preoccupati» (La stagione sciocca del Mezzogiorno).

Si dirà che è importante che le pubbliche amministrazioni italiane smettano di farsi sgusciar via di mano i fondi strutturali europei («riusciamo a utilizzare poco più del 50% della quota a cui potremmo aspirare», dichiarò il ministro Moavero Milanesi). Ciò parrebbe essere una cosa buona: sono dopotutto fondi già stanziati, per giunta dal contribuente europeo e non “solo” italiano, perché non spenderli?

A parte il fatto che per spendere un euro di quei fondi bisogna aggiungerne uno di fonte italiana, mi sembra che dalla storia della Cassa del Mezzogiorno si dovrebbe trarre l’impressione opposta. Non si “sprecano” fondi nel momento in cui non li si utilizzano, si genera “spreco” qualora vi si attinga. Bisogna infatti ragionare pensando all’ecosistema dell’economia meridionale, e non all’entusiasmo un po’ infantile che ciascuno di noi deriva “dall’avere denaro da spendere”. Su un piano individuale, è sempre bello ricevere un regalo (anche quando per metà l’ha pagato la nonna e per l’altra metà invece papà e mamma). Ma se è un’intera società che si abitua a ricevere regali, e orienta la propria economia alla ricezione dei regali piuttosto che ad attività produttive che sappiano trovare consumatori in carne e ossa, il regalo si rivela velenoso.

La dipendenza da fondi pubblici genera competizione per accaparrarsi quelle risorse: diventa razionale disputarsi, con tutti i mezzi, la manna dal cielo. Il fiume di denari drenato dalla Cassa del Mezzogiorno ci regalò le famose “cattedrali nel deserto”, oggi cattedrali fatiscenti nel deserto. Avrebbe potuto essere speso meglio, generando invece effetti realmente positivi? È possibile, chi dice di no? Eppure ci sarà una ragione se le cose sono andate come sono andate: se il denaro pubblico non ha accompagnato il Sud verso il “decollo industriale”, quanto piuttosto verso un’economia clientelare. Perché dovrebbe essere probabile che oggi s’ingenerino meccanismi diversi, rispetto a quelli che per quarant’anni hanno caratterizzato l’operato della Cassa? Perché la classe politica è migliorata, opera seguendo standard etici più elevati, mostra nelle sue decisioni un grado maggiore di competenza rispetto a quello dei governanti dell’Italia postbellica?

Il governo Letta ci ha ridato la Cassa del Mezzogiorno. I suoi nostalgici saranno contenti. I partigiani della spesa pure: mal che vada, sono già 120 stipendi in più.

«Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi»

(Albert Einstein)

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.