Ronald Coase, grande lettore di Adam Smith

Sebbene si schermisse dicendo di aver “conosciuto alcuni grandi economisti, ma non mi sono mai considerato uno di loro”, Ronald Coase è stato fra i massimi scienziati sociali del secolo passato. Coase è ricordato (ed è stato insignito del Premio Nobel), per due saggi, “La natura dell’impresa” (qui il testo in inglese, in PDF) e “Il problema del costo sociale” (qui il testo in inglese, in PDF; trovate la traduzione italiana di entrambi in questa antologia). LeoniBlog sta ospitando una serie di contributi (Carlo Stagnaro, Francesco Forte intervistato da Lucia Quaglino, Serena Sileoni, Massimiliano Trovato) che rendono bene l’idea sia dell’importanza di questi due lavori, sia di come la produzione di Coase sia stata ben più vasta.

Due erano gli eroi intellettuali di Coase: Alfred Marshall (del quale avrebbe voluto scrivere una biografia, progetto poi arenatosi) e Adam Smith. A Smith Coase ha dedicato due saggi, entrambi inclusi in “Essays on Economics and Economists”: uno per ciascuna delle due grandi opere smithiane. Che abbia scritto sulla “visione dell’uomo di Adam Smith”, è di per sé significativo. Per quanto sovente Coase venga presentato come uno dei responsabili ultimi dell’“imperialismo dell’economia”, egli era assai critico verso l’“economia da lavagna”: “Ciò che viene studiato è un sistema che vive nella mente degli economisti ma non sulla terra. […] L’impresa e il mercato appaiono di nome ma mancano di qualsiasi sostanza”.

Coase torna alla “Teoria dei sentimenti morali” (che passa in rassegna con la chiarezza tipica dei grandi insegnanti) per suggerirci che la visione della natura umana di Smith può “rendere più profonda la nostra comprensione della sua economia” – e, quindi, dell’economia tout court.

Il lettore è condotto per mano a cogliere ed ad apprezzare soprattutto il realismo della prospettiva smithiana. “La visione dell’uomo di Smith è di fatto una discussione dell’uomo come noi lo conosciamo”. “Smith vede l’uomo come esso è realmente: dominato, è vero, dall’amor di sé, ma non privo di cure per gli altri, capace di ragionare ma non necessariamente nel modo più indicato a raggiungere la conclusione corretta, in grado di vedere il risultato delle sue azioni, ma sempre attraverso il velo dell’autoinganno”.

Com’è noto, la “Teoria dei sentimenti morali” si dipana a partire da una riflessione sulla simpatia: “per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla”. Al contrario, la “Ricchezza delle nazioni” è ricordata dai più per il celeberrimo passo che ci ammonisce a non aspettarci che sia la benevolenza del macellaio a portarci la bistecca in tavola.

Già nell’anno del bicentenario della “Ricchezza delle nazioni”, Coase spiegava con maestria come Smith non avesse affatto modificato la propria visione della natura umana, nei quasi vent’anni che intercorrono fra un libro e l’altro (opinione oggi più diffusa di quanto non fosse allora).

Per godere di quella vasta divisione del lavoro che è necessaria per mantenere un livello di vita degno di un popolo civile, necessitiamo della cooperazione di una grande moltitudine di individui, sparsi per il mondo. Non vi è modo alcuno di garantire tale cooperazione per il solo tramite della benevolenza del prossimo […] La benevolenza è un sentimento estremamente personale e quelli che traggono beneficio dalle attività economiche alle quali ci dedichiamo ci sono del tutto ignoti. E se potessimo conoscerli, non ci apparirebbero necessariamente degni di attenzione. Se un estraneo dovesse dipendere dalla nostra benevolenza per quello che riceve da noi, nella gran parte dei casi si troverebbe a mani vuote.

La natura umana è la medesima, cambia l’oggetto dello studio di Smith: in un libro la cooperazione nel piccolo gruppo, nell’altro quella nel grande gruppo, la quale è governata dal sistema dei prezzi oppure non è. Il mercato è la forma “necessaria” della cooperazione fra estranei.

Esaminato da questo punto di vista il ragionamento di Smith a favore del ricorso al mercato per l’organizzazione dell’attività economica è molto più solido di quanto non si creda comunemente. Il mercato non è semplicemente un ingegnoso meccanismo, alimentato dall’interesse egoistico, per garantire la cooperazione degli individui nella produzione di beni e servizi. Nella maggior parte dei casi, è l’unico modo in cui ciò può avvenire.

Non diversamente, Coase rilegge la “Ricchezza delle nazioni” con grande sapienza, prestandosi a fare da guida al lettore del capolavoro smithiano. Ne presenta gli argomenti più significativi, e non fa economia di elogi. Rintuzza le critiche di Schumpeter, per il quale Smith “disprezzava tutto ciò che andava oltre il piano senso comune”, rispondendo che “ciò che Schumpeter vuol dire è che la ‘Ricchezza delle nazioni’ si legge con piacere”.

Nella lezione per il conferimento del Premio Nobel, Coase è tornato sul tema del suo notissimo saggio del ’37, chiarendo che “Per avere un sistema economico efficiente è necessario non soltanto avere mercati, ma anche aree di pianificazione all’interno di organizzazioni di dimensione appropriata. La scelta della combinazione migliore è quella che si effettua attraverso la concorrenza”. La concorrenza è un processo dinamico, che investe le imprese e condiziona continuamente il modo in cui i fattori produttivi vengono “sistemati” da imprenditori e imprese.

Smith, scrive Coase, “vedeva la concorrenza […] come una forma di rivalità, come un processo, anziché come una condizione definita da un’elevata elasticità della domanda”. Proprio in ragione di questo approccio, Coase prima, e molti suoi discepoli poi, sono stati assai critici rispetto alla “politica della concorrenza” perseguita dalle autorità antitrust.

Si è molto discusso, e molto si discuterà, sulle prescrizioni politiche che è possibile derivare dalla lettura di Coase: ovvero, se e quanto egli fosse avverso all’intervento pubblico in economia. Da più parti è stata fatta rilevare la sua attenzione al dato empirico – che ne segna tutta l’opera. Questo può essere interpretato come una disponibilità teorica ad accettare l’ingresso in campo dello Stato?

La passione e l’interesse per la storia economica coincidono proprio con una divorante curiosità, un autentico bisogno di provare a capire come funzionano i mercati e le imprese – che ha condotto Coase a dedicare molte energie, negli anni Quaranta e Cinquanta, allo studio del monopolio radio-televisivo e di quello postale nel Regno Unito, e che di recente lo ha portato a scrivere un libro complesso e affascinante come “How China Became Capitalist” con Ning Wang. Se Coase ha trovato, nelle sue ricerche (dalla BBC al faro), delle “regolarità”, esse lo hanno portato a sostenere che “quando si deve decidere se le autorità di governo debbano assumere nuovi ruoli, ignorare il pessimo modo in cui assolvono ai loro doveri attuali è ovviamente sbagliato (i vecchi doveri erano un tempo, di norma, nuovi)”.

Ha scritto bene Deirdre McCloskey:

Coase continua a ripetere che avanzare questa o quella proposta di politica pubblica comporta [la pretesa] di conoscere cose che di fatto nessun economista può conoscere. Egli afferma, sulla base di considerevoli evidenze empiriche, che in molti casi una politica di laissez faire otterrebbe risultati migliori di quelli prodotti dallo Stato, sebbene né il primo, né il secondo siano perfetti (viviamo in un mondo di soluzioni di ripiego, ossia un mondo in cui regnano i costi di transazione.

In “Economists and Public Policy”, egli lo afferma esplicitamente, sottolineando inoltre come (1) gli economisti contemporanei tendono ad essere eccessivamente ottimisti circa gli effetti dell’intervento pubblico (“sebbene la maggior parte degli economisti non ignori le inefficienze di un sistema di mercato e, anzi, tendano ad esagerarle, essi tendono altresì a trascurare le inefficienze intrinseche di qualsiasi struttura governativa”) e (2) le “poche semplici verità” che gli economisti potrebbero senz’altro offrire come valido contributo al dibattito pubblico sono proprio quelle che le persone tendono a rifiutare o ignorare.

Queste “poche semplici verità” sono riconducibili direttamente alla grande opera smithiana. C’è un passo della “Ricchezza delle nazioni” (“Digressione sul commercio e le leggi sui grani”) che Coase cita in più di una occasione:

Quando il governo, al fine di rimediare agli inconvenienti della scarsità, ordina a tutti i commercianti di vendere il grano a quello che esso ritiene prezzo ragionevole, impedisce loro di portarlo sul mercato, ciò che talvolta può determinare carestia anche all’inizio dell’annata; o, se ve lo portano, consente alla gente, e quindi la incoraggia, a consumarlo così in fretta da produrre necessariamente una carestia prima della fine dell’annata. L’illimitata e incontrollata libertà del commercio dei grani non è soltanto l’unica efficace prevenzione delle miserie di una carestia, ma anche il miglior palliativo agli inconvenienti di una scarsità; infatti gli inconvenienti di una reale scarsità non si possono rimediare ma soltanto alleviare.

Il mercante di grano, figura particolarmente odiosa nei periodi di carestia, ne è in realtà il miglior “regolatore” possibile – meno arbitrario e più efficiente della “mano visibile” del governo. È un esempio perfetto di quelle “poche semplici verità” degli economisti, che il pubblico a intervalli regolari sceglie di ignorare.

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.