Il referendum bolognese e il significato di scuola pubblica

Visto che si vota domenica, è il caso di ritornare sul referendum sulle scuole materne di Bologna. Grazie per le numerose reazioni al mio post precedente. Sia per le critiche argomentate (che ho apprezzato) sia per gli insulti (che, com’è noto, rafforzano i convincimenti dell’insultato).

Un’obiezione ricorrente riguardava l’aver “schiacciato” il refendum su Casa Pound. Mi sono limitato, in realtà, a prender nota di un dato di fatto: l’estrema destra sostiene, e convintamente, l’opzione A. Non c’è nulla di strano: la scuola “di Stato” è uno dei pilastri del vecchio nazionalismo, è per suo tramite che si forgia la nazione. Oggi è evidente più che mai che “destra” e “sinistra” estreme si somigliano molto. Su tutti i temi che riguardano l’intervento dello Stato nella sfera economica, le loro posizioni sono perfettamente congruenti. Non sorprende che si ritrovino anche sulla legge Berlinguer e le scuole “paritarie”. Restano lontane su tutte le questioni che incrociano i diritti individuali: dall’immigrazione alle coppie di fatto. Non mi sembrerebbe insensato, se questa convergenza non “nuova” ma mai tanto evidente in passato (per il semplice fatto che per cinquant’anni la destra estrema non è stata ammessa al tavolo del dibattito pubblico), inducesse persone “di sinistra” e “in buona fede” a rileggere criticamente il proprio percorso. Forse, o si accetta di presumere che la regola debba essere la libertà individuale in tutti gli ambiti (non solo in camera da letto ma anche nei centri commerciali), fintanto che non si prova che il suo esercizio finisce per limitare la libertà altrui, o coerentemente si difende il primato dello Stato sul singolo.

Non ho invece ricevuto l’obiezione che mi aspettavo. Che, cioè, il referendum di Bologna riguarda le scuole materne: quindi, non la scuola dell’obbligo. Col Sindaco di Bologna si dovrebbe pertanto discutere sul piano dell’opportunità, come fare a garantire un servizio che il Comune ha scelto di offrire ai suoi cittadini, nel modo più efficiente. Al contrario, si è sviluppata anche nei commenti un’accorata discussione sull’articolo 33 della Costituzione. Questo è pure l’approccio fatto proprio da Stefano Rodotà nella lettera con la quale ha risposto ad Antonio Polito, che sul Corriere della Sera ha preso posizione pro-opzione B. Rodotà dice che «ci si dovrebbe un po’ vergognare» di «battezzare come ‘pubblico’ un sistema di cui i privati sono parte integrante».

Maurizio Matteuzzi ha scritto una lettera molto interessante, sempre reagendo a Polito, nella quale ha sostenuto che «i problemi etici non si risolvono, almeno nella tradizione greco-latino-cristiana, con l’analisi economica della massima convenienza».
Matteuzzi ha certamente ragione, ma ciò che trovo personalmente curioso è sostenere che la questione oggetto del referendum bolognese sia un problema “etico”.
L’obiettivo politico di fondo non è in discussione. Nessuna forza politica, in Italia, mette in dubbio che sia legittimo prelevare coattivamente dei quattrini dal portafoglio degli italiani, per finanziare l’educazione dei loro figli e dei figli dei loro vicini di casa. Posto che il fine non è in discussione, provare ad avere una discussione sui mezzi significa tentare di aggirare un problema etico ricorrendo alla categoria dell’utile?

Torniamo al punto sollevato da Rodotà, e come nel mio primo post andiamo oltre la questione delle materne. In che senso è “privata” una scuola in cui docenti, la cui selezione si è svolta secondo criteri approvati dal pubblico, insegnano un programma stabilito dal pubblico, per il quale il pubblico paga in tutto o in parte la retta dei discenti? È “privata” nel senso che i muri non sono dello Stato. È una questione “etica”, che lo Stato possegga gli edifici nei quali si fa attività didattica?

Lasciamo da parte la questione (quella forse sì “etica”) della libertà di scelta delle famiglie. Un sistema basato sui buoni scuola sarebbe intensamente regolato da parte dello Stato, per le cose che più contano: per i programmi che i docenti debbono seguire. Sicuramente, consentirebbe ai privati di provare a gestire un servizio finanziato dallo Stato, andando a erodere le molte sacche d’inefficienza che tipicamente le burocrazie creano nel loro operare. È meno “pubblico”, per questo motivo? Nonostante le sue modalità d’erogazione siano pianificate dallo Stato e nonostante il suo finanziamento sia in carico ai contribuenti tutti? È il fatto che gli stipendi ai docenti siano pagati dallo Stato a definire la sua natura di “servizio pubblico”? Ma allora non si difende un principio, si difendono delle spettanze. Viva l’etica.

Avere una discussione sui mezzi (come garantire a tutti una scuola di qualità) anziché su un fine che non è messo in discussione da nessuna forza politica (l’istruzione pubblica) non è qualcosa di cui vergognarsi. Dovrebbe essere la regola, nelle discussioni politiche fra persone adulte.

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.