Sanità e profitto

A Servizio Pubblico, Gino Strada ha proposto di “abolire il profitto nella sanità”. L’affermazione è un po’ fumosa, ma piace. C’è qualche buona ragione. La condizione di debolezza estrema del malato giustifica, quasi per definizione, un forte tabù sociale circa il “trarre profitto” da chi sta male. Anche per questo, i sistemi sanitari sono basati di norma sul pagamento da parte di un terzo: lo Stato, o un’assicurazione che salda i conti di chi si trova ad avere bisogno di una prestazione medica. L’idea di dover estrarre la carta di credito al pronto soccorso ci fa, comprensibilmente, orrore: perché sappiamo che in quei momenti, un po’ per la paura e un po’ perché dal medico ci separa un abisso di informazioni e conoscenza, non saremmo in grado di prendere per noi stessi decisioni appropriate.

E tuttavia, siamo sicuri che questo significhi che è opportuno “fare a meno del profitto”?

Su che cosa sia il profitto, si hanno idee molto confuse. In primo luogo, il profitto è la remunerazione residuale dell’imprenditore. Il lavoro di quest’ultimo consiste nell’anticipare risorse affinché determinati fattori produttivi, da lui “assemblati”, possano essere impiegati a vantaggio di una certa produzione. Se l’imprenditore ha scelto bene la produzione da intraprendere, vi saranno dei consumatori che acquistano i prodotti o i servizi che egli offre. La sua remunerazione residuale (il fatto che ci sia ancora della “ciccia” una volta pagati tutti i costi) testimonia la sua capacità di combinare bene i fattori produttivi. Il fatto che egli faccia profitto, quindi, segnala che le scelte che ha compiuto sono state corrette. Questo “segnale” è importantissimo. Nessuno sa, a priori, quale è il modo giusto di ordinare i fattori produttivi. Il mondo non è un grande foglio Excel. Le preferenze, le necessità, le esigenze dei consumatori cambiano. Anche le le preferenze di ciascuno di noi in quanto “fattore della produzione” cambiano. E cambiano pure gli usi che è possibile fare di tutta una serie di risorse che possono essere utilizzate per produrre il bene X piuttosto che il bene Y.

In realtà, si dice profitto per dire, estensivamente, guadagno, denaro. Il vecchio sterco del diavolo.
Senza il profitto che segnala a chi intraprende una certa produzione se sta facendo bene o sta facendo male, però, noi tutti saremmo semplicemente ciechi: non sapremmo “dove” è meglio e più opportuno mettere una certa risorsa. La concorrenza si basa proprio su questo principio: è un modo per “setacciare” i tentativi imprenditoriali, quelli in grado di fare profitto sopravvivono, gli altri no. Sbagliando si impara: quali siano le produzioni “sostenibili” e quali no, non è una informazione che sia già a nostra disposizione, per così dire, “naturalmente”.

Il problema dei sistemi nei quali s’è deciso che “profitto” non deve esserci è precisamente questo. Si “spreca” proprio perché non si ha modo di capire come vadano “sistemati” i fattori della produzione. A prendere quelle decisioni, non è la messe vasta e disordinata dei consumatori – ma pochissimi “pianificatori”. I quali si presume siano onesti, integerrimi e illuminati. Ma non sono onniscenti.

Questo è vero anche se si parla di servizi legati alla salute. In larga misura la nostra sanità è “socializzata”, non vi sono imprenditori né prezzi né profitti. Ma se anche nel perimetro del sistema pubblico il pagamento è a prestazione, e, per esempio, se in Italia le migrazioni di pazienti da una Regione all’altra determinano un corrispondente spostamento di risorse, è proprio per provare a remunerare di più chi fa meglio. Sfrattato dalla porta, il “profitto”, in qualche modo sia pure larvato, rientra dalla finestra. E nemmeno il più coerentemente socialista dei sistemi sanitari immagina di fare a meno di remunerazioni e gratificazioni in denaro.

Gino Strada conosce, ama e pratica la cooperazione volontaria, “faccia a faccia”, in gruppi piccoli e coesi. Questa è una forma di cooperazione imprescindibile, fatta di condivisione e affetto. Non è però l’unico modo per cooperare. C’è anche la cooperazione volontaria ma inconsapevole, su lunga distanza, fra persone che non si conoscono e che cooperano senza mettersi esplicitamente gli uni a vantaggio degli altri. Questa forma di cooperazione ha bisogno di prezzi (e di “profitti”) per realizzarsi, per coordinare gli sforzi di milioni di persone che finiscono per lavorare gli uni con gli altri (anche Gino Strada “coopera” con chi ha prodotto le siringhe e gli strumenti chirurgici utilizzati dai suoi medici) ma ciascuno pensando ai propri fini.

Con Emergency, lavorano persone coraggiose che fanno un lavoro difficilissimo: talmente difficile, per così dire, che ad attrarle non può essere una remunerazione (per quanto elevata) ma solo la necessità di obbedire a un bisogno: il bisogno di fare il bene del proprio prossimo. Meno male, che esiste gente così. Ma si può immaginare di organizzare in quel modo il servizio sanitario nazionale di un Paese occidentale? O piuttosto non dipende anch’esso dalla cooperazione su larga distanza, fra persone che non si conoscono, e che non necessariamente condividono i medesimi fini?

Possiamo immaginare che non abbiano motivazioni “venali” medici, infermieri e neppure il personale amministrativo degli ospedali? È giusto che un ospedale non possa offrire di più a medici che ritiene siano di grande valore, e che pertanto sono tentati – magari – di andare a lavorare all’estero, attratti da salari maggiori? E, simmetricamente, se le remunerazioni debbono essere tutte uguali, se questa fastidiosa “venalità” deve essere espulsa dalla medicina, come faranno, i medici alle prime armi, a convincere qualcuno a dare loro un’opportunità, se comunque sia la remunerazione che debbono esigere è la medesima della star della chirurgia?
In più, la sanità è un mondo ad altissima intensità di innovazione. Come faremmo a distinguere i dispositivi medici più efficienti, o i farmaci migliori, se le imprese che li producono non potessero “fare profitto”? Perché le grandi aziende che li immettono sul mercato, e che spesso sono ad azionariato diffuso, dovrebbero impiegare grandi risorse nella ricerca, se non avessero la prospettiva del profitto?

È facile pensare che siccome il desiderio di fare profitto (o, estensivamente, di arricchirsi) testimonia l’egoismo umano, abolendo la possibilità di fare profitto (e di arricchirsi) avremo abolito anche l’egoismo umano. E’ facile, ma è anche una stupidaggine.

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.