In difesa dei super-stipendi

Nei giorni scorsi si è molto discusso di due iniziative politiche nella direzione di una riduzione dei super-stipendi di banchieri e super-manager. Da una parte, l’Unione Europea si è mossa nella direzione di una limitazione (ancora da approvare) dei bonus dei manager, la cui remunerazione sarebbe composta da una quota variabile pari a quella fissa o al massimo doppia, se vi è l’approvazione degli azionisti. Dall’altra, in Svizzera un referendum ha stabilito che le retribuzioni del consiglio d’amministrazione e del top management devono essere imperativamente autorizzate dall’assemblea generale degli azionisti, e non dal solo CDA. Il referendum svizzero è più articolato: esso prevede inoltre che le società quotate non possano dare premi in caso di acquisizione, e il rinnovo annuale del consiglio di amministrazione.

Ciò detto, vi è una differenza notevole fra le due iniziative: mentre in un caso si vuole introdurre una sorta di “salario massimo” (per quanto solo per la parte variabile), nell’altro si vogliono enfatizzare i poteri degli azionisti, ovvero dei proprietari di un’impresa.
Entrambe le proposte implicano un’erosione della libertà contrattuale: in una società libera io dovrei essere libero anche di acquistare un’azione di una ditta nella quale il consiglio di amministrazione si attribuisce in modo autoreferenziale remunerazioni stellari, se è ciò che mi garba. Gli elettori svizzeri sembrano pensare che gli azionisti di una società quotata tenderanno a non informarsi o a pagare lo scotto di una forte asimmetria informativa col consiglio, se non sono costretti a partecipare a un voto sulle remunerazioni del top management, con frequenza regolare. Non è un’ipotesi folle, e per quanto la norma riduca i margini della libertà di contratto, essa è pensata per rafforzare i diritti dei proprietari di un’azienda.
La polemica dei promotori del referendum era appunto contro le “retribuzioni abusive”, intese come quattrini stornati da dirigenze autoreferenziali, ai danni degli azionisti tutti.

Questo però non significa lasciare libertà al legislatore di esercitarsi sul tema della “giusta mercede” di spettanza di un manager, come vorrebbero i Paesi UE. Che ambiscono a sottrarre alcuni salari a quel processo decisionale decentrato che corrisponde a un mercato libero, per assoggettarli al verdetto del potere pubblico.
Dei diversi interventi regolatori che possono essere immaginati, questo non è certo il più impopolare. Alcuni stipendi appaiono veramente lunari. L’impressione diffusa è che “il meccanismo sia impazzito”. Si crea un problema di accettabilità sociale del capitalismo, che sembra impegnato ad assomigliare alla sua caricatura: uno strumento per lo sfruttamento dei molti a vantaggio dei pochi.

Impossibile non ricordare il discorso sull’avidità di Gordon Gekko, momento topico del film Wall Street. Fa parte ormai di una sorta di “iconografia diffusa” sul capitalismo finanziario. L’attenzione si fissa sempre, per l’appunto, sul greed, sull’avidità. Ma ciò che Gekko fa è aizzare gli azionisti di un’impresa, la cartiera Teldar, contro il management del momento, colpevole di moltiplicare le poltrone e di assegnarsi retribuzioni sontuose, peraltro ingiustificate alla luce della performance.
E’ la classica scena in cui si può stare solo o di qua o di là: o di qua, con l’avido Gekko che però vuole espellere quanti estraggono una rendita impropria dall’azienda. O di là, con chi difende lo status quo.
Gli svizzeri credono che gli azionisti siano tendenzialmente passivi, e “razionalmente ignoranti”, quando possiedono solo una quota infinitesimale di una impresa quotata. Per questo, debbono essere “costretti” a confrontarsi con la performance dei suoi gestori. Posto che non è detto che a tutti gli azionisti interessi avere di questi problemi, l’ovvia alternativa sarebbe lasciare che investitori professionisti facciano il proprio mestiere: ovvero che le imprese siano più contendibili possibile, affinché possano essere esaminate ed eventualmente acquistate da chi pensa di sapere come ristrutturarle per farle rendere di più.

Il fine è il medesimo, i mezzi sono differenti. Nel secondo caso si punta sull’autointeresse, nel primo su una sorta di “civismo degli azionisti”. In un caso e nell’altro, vi sono pro e contro, e conseguenze tutte da verificare. Sarebbe assurdo sostenere che la bontà del processo di mercato si basa sull’idea che tutte le imprese capitalistiche gestite attraverso una logica autointeressata abbiano “sempre” successo. Al contrario, il mercato serve proprio perché tutti possano imparare da tentativi ed errori di ciascuno. Parimenti, sarebbe assurdo immaginare che i singoli azionisti abbiano tutti una visione chiara e “illuminata” del proprio autointeresse – del genere che si rifiuta di riconoscere agli “scalatori” cui si riconduce, per esempio, un’eccessiva attenzione ai profitti di breve termine.

A Bruxelles, invece, non si ragiona in termini di tutela degli azionisti – ma semplicemente rispetto a un obiettivo politico, limitare remunerazioni che si sostiene non siano più socialmente accettabili. È così che si “salva il capitalismo dai capitalisti”? Alessandro De Nicola, occupandosi del referendum svizzero, ha suggerito che norme siffatte faranno spostare altrove grandi istituzioni finanziarie. È la preoccupazione di Londra. Negli occhi di chi investe, si affaccia la paura di un effetto-domino.
Se è lo Stato a decidere quanto viene pagato l’amministratore delegato, che ne è degli altri poteri del consiglio d’amministrazione, o dell’assemblea degli azionisti? In che misura sono saldi, e invece in che misura sono a rischio?

Questo ci riporta alla questione capitale dei tempi nostri. I super-stipendi appaiono un oggetto molto remoto (purtroppo) alla più parte di noi. Suscitano in molti invidia e perplessità. Come una certa impresa remunera chi ci lavora può essere deciso da una maggioranza, che non è la maggioranza degli azionisti? Dove finisce lo spazio della politica? Quali sono le porte che non può aprire? Se la relazione fra i proprietari, ancorché “diffusi”, di una azienda e chi la gestisce è un atto privato fra adulti consenzienti, siamo sicuri che una maggioranza possa condizionare così pesantemente i termini in cui si svolge?
Raramente la libertà si perde tutta in una volta. Vale anche per la libertà d’impresa.

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.