Wagner e la prima del Lohengrin

Volete l’ambientazione storico-culturale? Ecco qua: Wagner, alla prima del Lohengrin, manco c’era: era latitante in Svizzera e ricercato dalla polizia tedesca. Di Wagner ce ne furono tanti e quello fu il Wagner più di sinistra: terminata la composizione del Lohengrin, nel 1847, scrisse una spaventosa mole di tomi teorici in cui spiegò la sua concezione artistica e politica del mondo. Un assaggio:

«Dove non esiste necessità non esiste vero bisogno. Dove non esiste vero bisogno pullulano tutti i vizi, tutti i delitti contro la natura, ossia il bisogno immaginario. Ora, la soddisfazione di tale fittizio bisogno è il lusso, che non può mai essere soddisfatto perché, essendo qualcosa di falso, non esiste per esso un contrario vero e reale in grado di soddisfarlo e assorbirlo. Esso consuma, tortura, prostra».

Sì. Come no. Anni dopo, evidentemente prostrato, lo ritroveremo a scialacquare cifre incredibili in vacue sciocchezze come arredi, drappeggi, velluti, vestaglie, pavoni, persino pappagalli salvo fuggire da città e nazioni perché ricercato dalla polizia e dai creditori furibondi. In Germania figurò latitante per undici anni. Fu persino ladro: a Dresda, dov’era direttore del teatro, se la diede a gambe con il fondo pensioni dei dipendenti. Però la rivoluzione del 1849 vide Wagner impegnato a erigere barricate al fianco di Bakunin: sinché dovette lasciare la Sassonia per evitare un arresto e riparò a Weimar sotto la protezione di Franz Liszt, che invano cercò di raffreddare le sue chiacchiere socialiste. Il primo Wagner fu così: dalla nascita (1813) sino al 1864 fu spiantato e rivoluzionario, ammiratore dell’anarco-socialista Pierre Joseph Proudhon al punto da sottoscrivere che «la proprietà non è altro che un furto»; il secondo Wagner, finalmente affermato e circondato da accoliti e snob, fu invece più reazionario, ma non smise per questo di sognare un teatro popolare e lontano dai trastulli di corte, dove i direttori artistici legati all’aristocrazia la piantassero di maltrattasse i compositori con interpretazioni un po’ così, tirate via e con organici orchestrali ridicoli.
Ecco perché appaiono nondimeno ridicoli, oggi, tutti quelli che vorrebbero rifare Wagner con gli stessi organici orchestrali che utilizzò lui. Alla prima del Lohengrin erano a disposizione solo sei primi violini: tutto il maestoso preludio, cioè, era imperniato su sei poveri violini che dovevano contrastare la massa degli altri strumenti. Ora, alla Scala, sono 16. Ma Wagner ne avrebbe voluti anche di più, visto che a Bayreuth prevederà un organico di 16 più 16 violini. E tre clarinetti.

Non mi ricordo se ho già scritto – qui – che Wagner fu paragonabile a Omero ma al tempo stesso fu uno spettacolare figlio di buona donna. Non terminò gli studi, musicalmente fu un mezzo autodidatta per niente precoce, si atteggiò ad anarchico rivoluzionario e poi a conservatore appena ebbe un tallero in tasca. Fu rissoso, mezzo ubriacone, di casa in bische e bordelli, si giocò l’intera pensione della madre, finì anche in galera. Prima della fama conobbe la fame, a furia di indebitarsi si ridusse più volte a mendicare.
Wagner fu anche questo: visse a scrocco per una vita intera ed esercitò il suo magnetismo sugli uomini ma soprattutto sulle loro donne. Sposò Minna Planer, un’attrice bellissima che abbandonò il palcoscenico per dedicarsi a lui, ma poi perfezionò la sua vera specialità: scucire soldi a mecenati che erano innamorati della sua arte salvo infilarsi, lesto, nel letto delle loro mogli; in seconda battuta, poi, metteva in scena l’adulterio davanti agli occhi dei cornuti che l’avevano pure pagato.

Capitò a Parigi con Eugène Laussot, moglie di un commerciante che versava al musicista anche una rendita mensile: si sfiorò la sparatoria. Capitò a Zurigo con Mathilde Wesendonck, moglie del mecenate Otto che finanziò Wagner in tutti i modi e gli comprò anche una casa accanto alla sua. Pur restando amabilmente sposato con Minna Planer, il compositore frequentava anche la nobile Henriette von Bissing (per denaro) oltre alla figlia di un macellaio, certa Mariechen (probabilmente non per denaro) più una schiera di gran dame e contesse e granduchesse. Poi si avvicinò alla famiglia di Franz Listz, noto pianista e naturalmente lauto finanziatore. Wagner cominciò a corteggiarne la figlia illegittima, Cosima, donna non bella ma forte di carattere, sposata col direttore d’orchestra Hans von Bulow, che di Richard era amico e collaboratore. Aspettando Cosima, però, ne sedusse la sorella Blandine. La successiva tresca con la signora von Bulow divenne lo zimbello di tutta la Baviera, anche perché il marito resse il bordone per tutto pur acconsentendo al divorzio solo nel 1870. Minna Planner morì nel 1866 – senza che il vedovo andasse neppure al funerale – e quattro anni dopo Cosima e Richard si sposarono. Manca all’appello solo l’infatuazione wagneriana di Luigi II di Baviera, in arte Ludwig: noto omosessuale, passò a Wagner un appannaggio annuale da capogiro – che dissanguò seriamente le finanze reali – e soprattutto gli finanziò la costruzione – eccoci – del teatro di Bayreuth, cittadella fatata in cui i coniugi si trasferirono nel 1872. Non prima che i due pretendessero, da Ludwig e da mecenati vari, la costruzione di una casa monumentale e bellissima in cui potessero trovare adeguata ispirazione: ed ecco villa Wahnfried, dove il compositore volteggiava agghindato con vestaglie imbarazzanti e palandrane foderate di raso.

Ma questo fu il secondo Wagner, più che altro. Il primo, dicevamo, alla prima del Lohengrin manco c’era. In compenso fece di tutto per farla mettere in scena restando in esilio: se ne occupò l’amico Franz Liszt – mentre Richard restava a Lucerna – e l’opera andò in scena a Weimar il 28 agosto del 1850, diretta dallo stesso Liszt. Wagner, dalla Svizzera, calcolò dall’inizio alla fine i tempi dello spettacolo: «La sera del 28 agosto», scrisse, «la passammo a Lucerna nell’Albergo del Cigno, seguendo esattamente l’ora dell’inizio e quella presumibile della fine. Ma in tutti i tentativi ch’io facevo di vivere in comune con mia moglie qualche ora di allegra eccitazione, sempre s’insinuava qualche elemento disturbatore, di preoccupazione, di disagio, di cattivo umore. Nè i resoconti, che ben presto ricevetti, di questa rappresentazione, erano tali da fornirmene un’idea chiara e tranquillizzante».

Sarà un successone, comunque: anche se lui comincerà, di lì in poi, a viverla come una figlia sfuggita di mano. La rappresenteranno a Vienna, New York, San Pietroburgo, Parigi e Londra. La messa in scena a Bologna, nel 1871, sarà la pietra miliare del wagnerismo italiano, per l’uggia di Giuseppe Verdi e per il delirio interpretativo (non solo musicale, anzi) che ne verrà dai vari Liszt, Baudelaire, Thomas Mann, Mallarmé, Verlaine, Proust, D’Annunzio e Nietzsche. Anche perché non era ancora il vero Wagner: lui stesso lo sapeva. Il Lohengrin era ancora un’opera, non un dramma. C’erano arie, insiemi, duetti, cori, retaggi della grand-opéra francese e palesi strizzate d’occhio all’opera italiana: basti che il primo atto è in 4 quarti e in la maggiore, semplice, melodico, terribilmente alla portata delle bocche buone e buonissime che questa sera invaderanno La Scala. Non ci sono neppure i leitmotiv, ma solo scarni temi di reminiscenza più verdiani che altro. È Wagner ma non abbastanza, occhieggia al dramma musicale ma non abbastanza, osa ma non abbastanza. Ecco perché il compositore non ci rimise mai le mani nei 33 anni successivi: sarà proiettato nell’Anello del Nibelungo e quindi in un’immortalità omerica. Lohengrin, figlio di Parsifal, è soltanto un’opera bellissima, meravigliosa, rivoluzionaria, commovente. Decisamente poco, per Wagner.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera