Tre cose sulla sentenza della Fortezza da Basso

La prima premessa è che voglio prescindere dall’esito della sentenza (quella sul presunto stupro avvenuto alla Fortezza da Basso, Firenze, in cui sei dei sette imputati erano stati condannati in primo grado e poi assolti con formula piena in appello). La seconda premessa è che voglio ribadire la prima: intendo sottrarmi dal fare un processo a quel processo. Ma il testo della sentenza è una lettura interessante per comprendere l’approccio in generale alla questione della violenza sessuale anche nelle aule dei tribunali: è una sentenza in cui, al di qua del giudizio, sono scritti a lettere macroscopiche almeno tre punti potenzialmente molto rischiosi che dovrebbero portarci con velocità a recepire quel che abbiamo sottoscritto.

Primo
L’articolo 54 di quella Convenzione di Istanbul che è stata ratificata dall’Italia ed è in vigore dal 1 agosto 2014 ma di cui in Italia manca il sostanziale recepimento (e non solo pratico), al punto dedicato a “Indagini e prove” dice:

«Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che in qualsiasi procedimento civile o penale, le prove relative agli antecedenti sessuali e alla condotta della vittima siano ammissibili unicamente quando sono pertinenti e necessarie».

Nella sentenza sulla vicenda della Fortezza da Basso viene ricostruita in modo piuttosto insistente la storia della vita sessuale passata della ragazza con la descrizione di fatti ben precedenti al fatto: «dopo un rapporto omosessuale durato un paio d’anni»; «aveva collaborato ad un film del tipo splatter in cui recitava la parte di una prostituta, con scene di sevizie, violenze e perversione»; «aveva un rapporto sessuale estemporaneo all’aperto, in una viuzza vicino piazza S.Croce, sebbene egli fosse legato da tempo ad una ragazza da lei conosciuta» (sottolineo la frase dopo il “sebbene”); «aveva un rapporto sessuale occasionale in casa di lui» (un secondo rapporto occasionale). Non solo: si cita anche il fatto che la ragazza, giorni dopo quella sera, avesse partecipato ad un “workshop” estivo chiamato ‘Sex in Transition’. La somma di tutti questi elementi, nelle motivazioni della sentenza, compone il profilo psicologico della presunta vittima («un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta»). E lo fanno anche in modo retroattivo.

La Convenzione di Istanbul, che ad oggi è il documento più autorevole che abbiamo in materia, mette al riparo da una tentazione evidentemente molto forte e evidentemente molto pericolosa: fornire un contesto che fornisca a sua volta una giustificazione alla presunta violenza o che ne vizi il giudizio.

Secondo
Parte delle motivazioni della sentenza sono costruite intorno a un’assenza: su quella innanzitutto di una sufficiente difesa da parte della vittima e di una sufficiente resistenza mostrata alla presunta violenza. Si dice anzi che la ragazza abbia avuto «un’energica reazione» dimostrata dal fatto che è stata in grado di rivolgersi a un centro anti-violenza e a un’altra associazione.

Il principio è lo stesso della celebre “sentenza dei jeans” che se la ricordiamo forse ci è più facile capire: fu quella della terza sezione penale della Cassazione, la numero 1636 del febbraio 1999, che annullò la condanna a due anni e dieci mesi decisa dalla corte d’Appello di Potenza contro Carmine C., 45 anni, istruttore di guida, portato in tribunale da una ragazza di 18 anni, Rosa. La sentenza di assoluzione si basò su questa correlazione: visto che lo stupratore era riuscito a sfilare i jeans alla ragazza – indumento che non è sfilabile «senza la fattiva collaborazione di chi lo porta», la ragazza era «consenziente». Dunque non vi fu stupro.

Un’ulteriore “assenza” (o rovesciamento) riguarda il fatto che la sentenza si concentra molto su quanto non sia stato esplicito il ritiro del consenso (ed è il consenso ad essere dato per scontato) e molto poco su quanto invece la ragazza l’avesse effettivamente espresso quel consenso. Si dice che tra la festa e il dopo la festa «non c’è stata alcuna cesura apprezzabile tra il precedente consenso e il presunto dissenso» ma si cita il fatto che tutti e sei i ragazzi si erano mostrati «quasi stupiti» quando lei dopo l’atto, «riprendendosi» (c’era dunque qualcosa da cui riprendersi?) «aveva detto basta». La certezza del consenso è basata sul comportamento passato della ragazza (ma qui torniamo al punto primo) e sul suo comportamento di quella sera (un rapporto orale avuto nel bagno, non manifesto fastidio per avances ricevute, strusciamenti e palpeggianti durante il ballo).

Nadia Somma cita a questo proposito un’altra recente sentenza. Lo scorso maggio il tribunale di Modena aveva assolto tre ragazzi dall’imputazione di stupro nei confronti di una ragazza ubriaca perché «Se è vero che il comportamento passivo della vittima e il fatto che scivolasse nella doccia avrebbero dovuto indurli a sospettare che la stessa avesse perso la lucidità necessaria per presentare un valido consenso all’atto sessuale è altrettanto vero che l’assenza di azioni di respingimento e di invocazioni di aiuto avrebbero potuto ingenerare la convinzione che la 16enne fosse consenziente».

L’assenza o la presenza di qualcosa che viene interpretato per “vicinanza” (strusciarsi o l’avere un rapporto orale fanno parte della sessualità ma non coincidono con una pratica sessuale di gruppo) hanno generato la presenza manifesta del consenso.

Terzo
Nella sentenza vengono elencate una serie di contraddizioni, 29 per la precisione, nella testimonianza della ragazza. Ed è su queste che si concentrano – nella discussione assurda che ne è derivata – i “sostenitori” della sentenza stessa. Chi si occupa di violenza sessuale (la letteratura scientifica in proposito è vastissima) sa bene che le contraddizioni nei racconti delle vittime dello stupro non sono qualcosa di straordinario. Basti leggere, per brevità, quello che ha scritto Alessandra Pauncz, psicologa e psicoterapeuta, fondatrice del C.a.m. di Firenze (Centro ascolto uomini maltrattanti):

Chi è familiare con la violenza sessuale sa che spesso le vittime hanno degli episodi di dissociazione quando subiscono la violenza. Significa che per proteggersi da quello che avviene la mente ha un momento di black out. Non si pensa, non si ricorda. Chi subisce una violenza può avere una risposta involontaria di totale passività, perché percepisce l’azione sessuale non consensuale come un pericolo di vita e la risposta istintiva diviene la sopravvivenza. Per sopravvivere si attiva una parte primitiva del cervello che paralizza le risposte cognitive e comanda l’immobilismo o la fuga. Dopo i fatti, molte vittime si sentono in colpa per non aver reagito, senza rendersi conto di quali dei gesti e delle azioni commesse ha trasmesso loro il senso di pericolo di vita. Invariabilmente ci sono, ma qualche volta, con il senno di poi, potendo ragionare sugli eventi (senza il pilota automatico) tali minacce possono apparire in una luce diversa.

Alla luce di questo è perfettamente compatibile che una persona non sappia dov’è quando esce dalla macchina, se la violenza è avvenuta nel posto X o nel posto Y, se erano 6 o 7, se la bici era legata da una parte o dall’altra, se la telefonata è avvenuta alle 4 o alle 4.40.

E ancora, qui:

«Chi subisce violenza sessuale, soprattutto se in condizioni di assenza di resistenza («Ho proprio staccato la testa, ho pensato di essere morta, non pensavo più, non guardavo più»), normalmente non presenta segni di lesività significativa, anche perché non esistono indicatori specifici di abuso».

Quindi?
Torno all’inizio. Al di là dell’esito del processo sembrano mancare in questa come in altre sentenze sulla violenza sessuale alcune competenze specifiche. Non è un caso che la Convenzione di Istanbul insista così tanto e così a lungo sul fatto che i vari soggetti coinvolti in una denuncia di stupro, dalle indagini ai tribunali, debbano avere una precisa comprensione della violenza di genere e delle sue dinamiche. Io non posso sapere se l’esito della sentenza sarebbe stato differente. Ma certamente, in presenza di precise competenze, ci sarebbero state anche maggiori informazioni per arrivare a capire cosa è accaduto.

Infine
Vorrei rivolgermi ai sei ragazzi due dei quali in due diverse lettere hanno raccontato quello che hanno passato, la gogna mediatica, l’esperienza della carcerazione preventiva. Non siete degli stupratori, così ha deciso il tribunale, ma siete questo. Siete quelli che uscendo dalla Fortezza hanno detto a un dipendente che si era avvicinato: «se l’è maiala…»; siete quelli che a un’amica di lei che chiedeva se ci fosse bisogno di aiuto hanno risposto se fosse stata della lega antistupro; siete quelli che col cellulare misuravano il tempo dei rapporti, quelli che hanno interpretato «le forme procaci che non nascondeva» come segno di una «sessualità scatenata» e a vostra disposizione; quelli che siccome girava con i profilattici in borsetta «era una disponibile». Quelli che hanno visto in una persona che viveva come le pareva la propria sessualità (o una persona fragile, a seconda dei punti di vista) un oggetto sessuale di cui disporre, come vi pareva.

La sentenza ha definito tutto questo «un fatto increscioso, non encomiabile per nessuno» ma non penalmente perseguibile. Non siete degli stupratori, ma siete molto di più che persone che hanno semplicemente agito e pensato in un modo seccante e non degno di lode. Quando la rabbia sarà passata, pensateci. E chiedetevi se nelle parole di lei, non ci sia qualcosa che da qualche parte vi corrisponde.

Giulia Siviero

Per ogni donna che lavora ci vorrebbe una moglie. Sono femminista e lavoro al Post. Su Twitter sono @glsiviero.