Bastava fare “Due” con la mano a Stefano Cucchi

Nel 1987 a Siracusa c’era la questione del casco.

Era diventato obbligatorio, quindi trovavi posti di blocco ovunque: della polizia, dei carabinieri, qualche volta anche dei finanzieri.

In certi quartieri e in certe scuole di Siracusa, nel 1987 (ma un po’ pure adesso) se qualcuno ti diceva sbirrofinanziere ma soprattutto carabiniere era proprio un insulto, di quelli gravi, tipo figlio di buttana: cioè o era una cosa che ti dicevano gli amici tuoi più stretti, proprio per ridere, oppure significava che chi te l’aveva detto voleva farla finire a legnate, dovevi partire con le botte, combattere per salvare l’onore.

In certi altri quartieri e in certe altre scuole, tipo la mia, questo fatto di dirsi sbirro carabiniere invece era più che altro una pantomima, uno scimmiottamento: cioè in un certo senso ce lo dicevamo tra di noi per fare i torpi, cioè i grezzi, cioè per imitare, un po’ deridendoli, quelli un po’ malacarni che si dicevano seriamente sbirro e carabiniere l’un l’altro per offendersi.

A volte capitava che questa sottigliezza sfuggisse, oppure che venisse volutamente equivocata, così da utilizzarla come pretesto: magari quello che ti aveva dato del carabiniere per scherzo ti stava già antipatico per chissà quali motivi, e allora fingevi di non avere colto l’ironia e ne approfittavi per farla finire a legnate lo stesso. A quel punto, chi si trovava ad assistere all’aggressione in qualche modo la legittimava: be’, però gli ha detto carabiniere, non è che se la poteva tenere così.

Quindi insomma, anche in scuole e quartieri tipo il mio, non era mai chiarissimo se questo termine fosse un insulto per davvero o solo per finta: si rimaneva sul vago, un po’ era per ridere e un po’ poteva diventare una cosa seria.

In certi altri quartieri e in certe altre scuole invece c’era più certezza: questo fatto che non eri sbirro e non eri carabiniere si doveva vedere bene, andava dimostrato a tutti, in vari modi e con vari atteggiamenti. Uno era non mettersi il casco.

Il casco, per la verità, non se lo metteva nessuno, in nessuna scuola e in nessun quartiere, un po’ per la storia (mai chiarita fino in fondo) che non bisognava essere né sbirri né carabinieri, e un po’ perché all’epoca c’era un problema molto sentito: il gel.

Senza gel non usciva di casa nessuno, e col gel mettersi il casco era una tragedia.

Però c’erano questi cavolo di posti di blocco degli sbirri, dei carabinieri e pure dei finanzieri un po’ ovunque, e non si poteva rischiare di farsi sequestrare il motorino. Allora, per la paura di restare a piedi, il casco te lo portavi dietro, senza metterlo: lo infilavi sul braccio destro, il lato dell’acceleratore, così se ti accorgervi di un posto di blocco, in un attimo te lo potevi infilare in testa.

Accorgersi del posto di blocco era piuttosto semplice, perché tra i possessori di motocicli era invalso un uso assai solidale: segnalarsi reciprocamente la presenza di sbirri, finanzieri e soprattutto carabinieri con un gesto della mano. Se incrociando un motociclista quello ti faceva il numero “due” con la mano significava che lungo quella strada c’erano i carabinieri: o ti mettevi il casco in testa o facevi inversione ed evitavi il posto di blocco.

Tutti i ragazzi, di tutti i quartieri e di tutte le scuole, sapevano come interpretare questo gesto e quindi anche come regolarsi, e nessuno mancava mai di segnalare la presenza di carabinieri a propria volta.

Nonostante questi accorgimenti, qualcuno veniva beccato lo stesso: i primi a passare da un certo incrocio, se la pattuglia era ben piazzata, non avevano scampo. L’unico modo per evitare il sequestro, a quel punto, era non fermarsi al posto di blocco e scappare.

Lì la differenza tra scuole e quartieri si faceva molto più pronunciata: quasi mai i ragazzi che provenivano da ambienti  difficili si fermavano ai posti di blocco. A fermarsi, senza nemmeno essere sfiorati dall’idea di ignorare la paletta, erano i ragazzi di scuole e quartieri come il mio.

Ti ritrovavi così immobilizzato in mezzo alla strada, a dare documenti e spiegazioni, spesso per molto più tempo del dovuto, e subendo una serie di ramanzine, di solito molto aspre, che piano piano, con lo scorrere dei minuti diventavano prima reprimende, poi derisioni un po’ umilianti, e nei casi peggiori temevi potessero degenerare in scappellotti, o addirittura percosse. Insomma, più cominciavi ad avere paura che le cose si mettessero male, più i carabinieri solleticavano i tuoi timori, giocandoci con poco o molto sadismo, a seconda dei casi.

Ricordo bene la volta che mi sequestrarono la vespa 50 Pk XL colore blu notte (aveva anche un grosso adesivo con la faccia imbronciata di Paperino sul bauletto destro), in piazza della Repubblica (oggi si chiama piazza Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), a due passi dal vecchio tribunale, allora in piena funzione.

Uno dei tre poliziotti, mentre gli altri due mi cazziavano pesantemente per questo fatto del casco (mettendo la cosa in termini francamente assurdi, come se io avessi deciso di girare senza casco per deridere la loro autorità o svilire la loro funzione di controllo, quando per me era tutta una questione di gel) si allontanò di qualche metro ed esplose un colpo di pistola per terra, facendo saltare per aria uno o due cubetti di porfido. Pure i due che mi stavano cazziando fecero una faccia sconvolta, ma il terzo, quello che aveva sparato, si mise subito a ridere, disse qualcosa di divertente, e tutti e tre si godettero la mia espressione di paura e i miei sudori freddi.

Mi ricordo anche che tornando a piedi verso casa, il casco infilato sul gomito destro, pensai che effettivamente dire a qualcuno sbirro o carabiniere era un insulto pesante, e non c’era bisogno di essere torpi o malacarni per offendersi se qualcuno lo diceva a te.

Un’altra cosa che notavi sempre quando ti capitava di essere fermato a un posto di blocco erano proprio i torpi: non era tanto che non si fermassero loro, era più che altro che ai poliziotti e ai carabinieri e ai finanzieri non veniva neanche in mente di fargli vedere la paletta. Più le facce erano brutte, più gli si leggeva in faccia che non si sarebbero fermati, più si intuiva che avrebbero reagito all’ALT come a un’offesa personale, insomma più si capiva che erano delinquenti, più i carabinieri li ignoravano, lasciandoli passare.

Non potrei dire sempre, ma posso dire spesso per averlo visto succedere in diverse occasioni, la paletta la esibivano a facce da scemotti, con la gommina sui capelli e gli adesivi di paperino imbronciato sul bauletto.

Più volte mi è anche capitato di vedere coppie di malacarni passare a gran velocità, senza casco neppure sul gomito, con motorini così rumorosi che sembravano duemila di cilindrata, e sputare per terra con grande ostentazione due metri dopo o due metri prima del posto di blocco: fermarli sarebbe stato allo stesso tempo doveroso e impossibile.

Finito il liceo, cioè l’età degli scioperi, delle fallimentari occupazioni scolastiche, dei cortei e delle manifestazioni di piazza in cui spesso si entra a contatto con le forze dell’ordine, l’idea che sbirro e carabiniere fossero brutte parole si era tradotta in un distinguo più preciso: per me, e per quelli un po’ fessacchiotti come me, era un insulto, ma non allo stesso modo e non con lo stesso significato che gli davano quegli altri, quelli che al posto di blocco non si fermavano e sputavano per terra.

Per loro, carabiniere significava spione, nemico, ficcanaso. Per me e per i miei compagni di scuola invece significava più che altro uno debole coi forti e forte coi deboli.

Non che mancassero esempi diversi, del tutto opposti a questo genere di comportamento vile: quando Ortigia diventò per la prima volta Zona a traffico Limitato, e per accedervi bisognava esibire un pass, vidi più volte vigili urbani, carabinieri, poliziotti e finanzieri, buscare schiaffoni, restituirli e portare in questura certi brutti ceffi che pretendevano di entrare e uscire dal centro storico come gli pareva e piaceva.

Il 23 settembre 1997, finito il concerto degli U2, a Reggio Emilia, c’erano decine di migliaia di persone che si accalcavano sul piccolo piazzale di una minuscola stazione, per salire su un treno che li avrebbe riportati a casa: è stato come partecipare all’apocalisse e averla scampata per un pelo. Il pelo che la fece scampare furono i celerini, che con una flemma inumana seppero gestire una folla inferocita, pronta a uccidere pur di entrare in stazione, e forte della sua enorme superiorità numerica. Ricordo di aver ammirato uomini e ragazzi in divisa che si prendevano sputi in faccia, minacce e insulti di ogni tipo, provocatori spintoni e bottigliate in testa, senza mai perdere la pazienza e la lucidità per una intera notte, fino all’alba.

Però qualche anno dopo vidi la scena di un panettiere che consegnava un carico di filoni caldi a una bottega di generi alimentari, in via Piave, e di due poliziotti che gli si avvicinavano, mentre lui reggeva con tutt’e due le mani una grossa cesta molto pesante, dicendogli in malo modo di spostare subito il furgoncino da là, perché loro dovevano parcheggiare (c’erano un sacco di altri posti liberi, due metri più giù). Lo sentii rispondere un attimo, scarico questa cesta e arrivo. E poi sentii il rumore delle sberle, quello della cesta che cadeva per terra, alzai gli occhi e vidi che lo infilavano dentro la volante e se lo portavano via.

Qualche anno prima avevo letto un libro che mi aveva allo stesso tempo divertito e inquietato, Il lercio, di Irvine Welsh. La parte che mi divertiva era la stessa che mi preoccupava: il protagonista era un poliziotto esaltato e manesco, e la sua filosofia di vita era che il posto di lavoro più appropriato per un maschio nato con una naturale tendenza all’abuso e alla violenza fosse nelle forze dell’ordine.

Il libro giocava molto con gli eccessi, era una specie di fumetto iperbolico, ma sapeva bene come spingere sul tasto del timore: se era in grado di inquietare era perché da qualche parte, nell’esperienza di chi leggeva, risuonava l’immagine di un poliziotto prevaricatore e prepotente, una figura che si poteva essere intravista nella realtà, magari non sovrapponibile, ma in certi punti combaciante.

Molti anni dopo, mi ritrovai a insegnare in un carcere.

Ogni tanto origliavo i discorsi degli studenti, da principio senza volerlo, poi con sempre più curiosità, senza riuscire a staccarmi. Mi interessavano i racconti che si scambiavano riguardo agli interrogatori (il mio era un carcere giudiziario, quasi tutti gli studenti erano in attesa di un giudizio definitivo, il che è già di per sé una follia). Da quello che dicevano traspariva una specie di sconforto e delusione: lo attendevano per giorni, settimane o mesi, ma quando poi ne parlavano capivi che non era stata un’occasione per chiarire, ma più che altro si era trattato di un momento al quale bisognava sopravvivere, non lasciarsi intimidire troppo, non cedere, non crollare.

Prima della mia esperienza in carcere c’era stato l’assassinio di Emanuele Scieri dentro la caserma Gamerra di Pisa, poi ci fu  la storia della Diaz, e dopo ci furono tra gli altri il caso di  Federico Aldrovandi, quello di Giuseppe Uva e quello di Stefano Cucchi.

Essere un poliziotto, un carabiniere, un parà, un marò, un commissario, un magistrato inquirente non dev’essere facile. Una componente di intimidazione e di violenza è insita nel mestiere che fai, ce la devi avere dentro come una specie di vocazione, devi farci i conti ogni giorno e gestirla con molto autocontrollo in istanti lunghi e difficili, che in un attimo possono diventare spartiacque della tua vita e soprattutto di quella di un altro. Una divisa, un manganello, una pistola o l’autorità per decidere che la vita di una persona proseguirà in galera dovrebbero averla solo quegli individui perfettamente equilibrati e risolti: ai più saggi tra noi le armi dei custodi e ai filosofi il potere di giudicare.

Era una repubblica ideale, quella di Platone, certo, la realtà sarà sempre un’altra cosa. Eppure per uno stato di diritto non c’è altro modo di progredire in civiltà se non quello di ammettere i propri errori e tentare di correggerli. Forse il carcere non andrebbe dato mai a nessuno, nemmeno agli assassini di Cucchi. Però la verità andrebbe restituita sempre a tutti. E chi ce l’ha dovrebbe offrirla spontaneamente, al di là di qualsiasi sentenza.

In ogni caso sarebbe stato bello, la notte del 15 ottobre 2009, avere incrociato Stefano Cucchi col motorino e avergli fatto il numero due con la mano, giusto qualche minuto prima che arrivasse la volante.

Gli errori del caso Cucchi

Mario Fillioley

Ho tradotto libri dall'inglese in italiano. Poi ho insegnato italiano agli americani. Poi non c'ho capito più niente e mi sono messo a scrivere su un blog con un nome strano: aciribiceci.com