“Il caso Spotlight” e il giornalismo anglosassone

La visione del film Il caso Spotlight è fortemente raccomandata ai giornalisti, e di sicuro su quelli anziani come me può avere un effetto dirompente, che va dall’entusiasmo alla depressione. Racconta una storia vera, la lunga inchiesta del quotidiano Boston Globe nei primi anni Duemila sugli abusi sessuali perpetrati da sacerdoti su minorenni e coperti dall’arcidiocesi. È un film molto ben fatto, alla cosiddetta vecchia maniera del cinema civile americano, cioè con bravi attori, ottima sceneggiatura, ritmo e tensione. Per quel che mi riguarda, mi sono a stento trattenuto (al cinema non usa, a differenza dello stadio) dall’applaudire numerose scene. Mi avrebbero preso per pazzo. Già quando il nuovo direttore arriva e chiede al team Spotlight (significa riflettore, è un gruppo che fin dal 1970 fa giornalismo investigativo) quanto tempo dedicano a un’inchiesta, e gli rispondono “due mesi in media, ma anche molto di più, perfino un anno”, io lì volevo piangere.

Il giornalismo investigativo di stile anglosassone qui da noi non ha mai avuto fortuna. Cronisti in gamba, determinati e cocciuti ne abbiamo, ma è il sistema che è diverso. A Boston (nel 1970, ripeto) decisero di creare Spotlight (quattro giornalisti) sul modello dell’Insight Team dell’inglese Sunday Times. Sceglievano un caso, e ci lavoravano per mesi. Già vedere nel film questi sempre col taccuino (giallo) in mano, che sgobbano come una vera squadra senza che uno faccia le scarpe all’altro, che incalzano i potenti omertosi e sono pietosi nel raccogliere le testimonianze delle vittime, è qualcosa che mi galvanizza e mi butta a terra. Nei giornali italiani non si è mai fatto così. I tempi dedicati a un’inchiesta sono ridicolmente brevi. E le inchieste si riducono a raccontare una situazione, mettendo in fila alcune voci. Se si investe su un tema, è casomai per una campagna di stampa. Uno o due articoli confezionati in fretta, e altri che seguono, sperando che nel frattempo escano nuovi elementi. Intendiamoci, dietro una campagna di stampa c’è un sacco di lavoro ben fatto, ma è un’altra faccenda.

Non è solo questione di come i giornali sono organizzati. È che la società anglosassone è diversa dalla nostra: l’accesso ad alcune fonti e documenti è garantita dalla legge, la libertà di stampa tutelata (davvero) dalla Costituzione. Poi, però, i giornali (quelli buoni) si comportano diversamente: non cercano solo qualcuno che faccia rivelazioni fra virgolette, per pubblicarle subito e scatenare “la polemica”. Le rivelazioni sono elementi di prova, e alla fine il giornale li incrocia e scrive: noi vi diciamo che le cose sono andate così. E là un’inchiesta ben fatta può provocare sfracelli, e ricevere premi. Certo si può pensare che tutto Il caso Spotlight sia stato girato per creare un effetto-nostalgia: i giornali cartacei negli Stati Uniti hanno perso valanghe di copie, come quelli nostri. E il neo-direttore Marty Baron di lì parte: già nel 2000 l’emorragia era cominciata, e bisognava provare a cambiare rotta. Su di me l’effetto-nostalgia ha funzionato meravigliosamente: mi sono perfino commosso a vedere l’archivio con le cartellette e i ritagli di giornale, e i pacchi di copie del Boston Globe che escono dalle rotative. Era la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente.

Fabrizio Ravelli

Fabrizio Ravelli, milanese del 1951, giornalista per molti anni a la Repubblica, non ha mai scritto libri per il momento.