Servizi pubblici

Cosa fa sì che una televisione sia servizio pubblico ?
I contenuti, la famosa identità, o chi paga, chi finanzia i contenuti? O forse, come pensano alcuni furbetti del mestiere, l’ascolto e basta?
I nodi emergono ciclicamente in occasioni topiche. In America, dove guardo la televisione, le questioni sono esplose con una frase di Romney nel primo dibattito presidenziale, quando ha usato l’esempio della PBS per dire che la sua amministrazione avrebbe tagliato i fondi a molti programmi federali, tra cui quello che riguarda la televisione comunemente definita pubblica.  I fondi (450 milioni) sono il 15% del budget della entità privata e non profit PBS.
Intanto capire cosa definisce la  PBS come televisione pubblica potrebbe aiutare a immaginare qualcosa anche del futuro della nostra televisione, volendo.
Non bastano i soldi del governo federale citati da Romney (a cui vanno aggiunti il 5% proveniente da governi locali, il 7% da contratti per programmi finanziati sempre da Washington e il 18% di sostegno federale in altre forme comunque dovute). La maggioranza dei soldi arrivano infatti da un mix di fondazioni filantropiche, imprese e contributi volontari di telespettatori (questi raggiungono il 22%). Quindi non è per la formazione del budget che il network di televisioni locali pubbliche – che, tutte insieme, fanno la cosiddetta televisione pubblica americana – si può definire semplicisticamente sia servizio pubblico.

È allora per i contenuti che la PBS è ritenuta servizio pubblico? Anche questo è opinabile. Il telegiornale delle sette di sera lungo un’ora (PBS NewsHour), quello diffuso da tutte le tv locali associate, è realizzato da una società esterna compartecipata, con larghi segmenti di esteri, con scambi con la BBC e altre televisioni e ha due commentatori fissi, Mark Shields e David Brooks, uno più liberal, l’altro più conservatore.
Tutta la produzione di approfondimenti e inchieste è di grande fattura (orientata liberal). Tutta insieme la programmazione della PBS, con prime serate teatrali, alternate a documentari e inchieste e a serie spesso provenienti dall’Inghilterrra (Downton Abbey) forma un corpo con una sicura identità. Basta pero’ questo a farne una televisione di servizio pubblico?

Non basta sicuramente la raccolta pubblicitaria, da sempre confinata nelle pause che seguono 50 minuti continui di messa in onda (e poi spot anche per otto minuti di seguito) e recentemente, causa di grande dibattito, infilata a tratti ogni 15 minuti. Pubblicità selezionata e garantita da corporations o fondazioni che già finanziano la stessa televisione. E l’ascolto? In aumento costante. Nelle classifiche dei primi dieci per molti programmi dedicati ai bambini (e alle madri). Nel primetime poi la PBS supera di parecchio CNN e molti altri concorrenti, esclusi i quattro grandi ( NBC, CBS, ABC, FOX ). L’ascolto dunque non è indifferente alla costruzione di una identità televisiva ma non è elemento fondante, assoluto, nel breve periodo. È una costruzione lenta.

È allora così la PBS perché mancano le piazze, le  interviste ai citofoni, le macchine rombanti dei politici che si sottraggono alle domande? Perché il ciclo delle lavatrici del caso di cronaca, del delitto della settimana, non viene spalmato a tutte le ore sui palinsesti? Perché non si fa una palude (pop, dicono i furbetti dell’inizio del post) di pettegolezzo e notizia? Nemmeno per questo perché anche tutta la televisione commerciale americana ha confini e territori blindati, come quelli delle serie fiction, che non sono permeabili all’attualità più o meno gridata, logorroica, retorica.
La meno noiosa di un tempo PBS è servizio pubblico perché risponde a tutte e tre le domande iniziali. Perché fa quadrare i conti con il poco che ha, perché ha una linea editoriale, perché fa ascolto. Senza canone.
Poi, a pagamento, le serie che mi piacciono me le vado a vedere su HBO e Showtime. Ma questo é un discorso più largo.

Andrea Salvadore

Vive a New York e fa il regista. Ha un blog, Americana Tv