Salvini e Landini, che lasceranno lavorare Renzi

Quelli di Forza Italia, un po’ per frustrazione un po’ per polemica, dicono che Matteo Salvini è la polizza d’assicurazione sulla vita di Matteo Renzi. Hanno ragione, per difetto. Perché il capo della Lega depadanizzata è molto più che il «il nemico perfetto» per il presidente del Consiglio. È l’araldo di una nuova stagione politica, che è stata introdotta dalla vicenda dell’elezione di Mattarella ma che in sostanza si inaugura adesso, proprio nel giorno della marcia su Roma delle ex camicie verdi.

«Renzi a casa» chiedono i manifesti leghisti affissi per strada. Peccato che la nuova stagione sia, esattamente all’opposto, quella della stabilizzazione renziana, tanto più stabile e tanto più forte proprio grazie all’imporsi di un oppositore come Salvini. Essendone Salvini perfettamente consapevole.
Complice, diremmo.
Come complice di Renzi, all’altro estremo dell’arco politico, è anche Maurizio Landini. Avendo entrambi dichiarato guerra totale al premier, al suo governo e al suo Pd, stando però bene attenti a scendere in battaglia su terreni sui quali Renzi non dovranno incrociarlo mai – o almeno per un bel po’.

La manifestazione romana della Lega può riuscire, o meno. Non conta. E contano poco gli attacchi più o meno accesi al governo. Per Salvini, come per Landini, il problema non è la radicalizzazione delle parole d’ordine bensì l’obiettivo che ci si pone. Nessuno dei due emergenti oppositori di Renzi pensa o proverà davvero a «mandarlo a casa», nonostante le speranze suscitate nelle rispettive tifoserie. La verità è che gli lasciano il campo, nella contesa elettorale e nella manovra politica, dando la partita per perduta nel medio periodo e provando a occupare spazi politici più lontani possibile dalla voracità del bulimico presidente del consiglio.
La destra simil-lepenista che Salvini prova a costruire è un oggetto alieno per la società italiana, o meglio esistente più o meno nelle dimensioni di Casa Pound (non casualmente aggregata alla manifestazione romana). Non c’entra nulla né con la Lega di Bossi né con la destra storica o sociale, da Fini a Storace alla Mussolini, tanto meno col minestrone post-democristiano e post-socialista che è stato Forza Italia. Essendo figlio del tempo, sull’onda del no-immigrati e no-euro, questo Ogm politico cresce nei sondaggi sapendo fin d’ora (lo riconosce lo stesso Salvini) di non avere alcuna capacità competitiva col Pd di governo.

È fatto intenzionalmente così. È fatto per mettersi al riparo dalla incredibile capacità di Renzi-Zelig di succhiare suggestioni, emozioni e infine consenso dai suoi avversari. Solo fuggendo dalla competizione diretta con Renzi un partito può pensare – oggi, domani chissà – di evitare la sorte toccata a Bersani, a Monti, a Vendola, a Grillo, ad Alfano, infine a Berlusconi.
Ebbene sì, anche Salvini squilla la fine del peculiare bipolarismo della Seconda Repubblica, dell’Italia politica ed elettorale spaccata a metà come una mela, impossibile da ricomporre e però speculare nei difetti. Il suo è un minoritarismo dichiarato, consapevole, almeno però difendibile. Una rendita di posizione. In sostanza, un Msi della Terza repubblica. «Renzi a casa» sui manifesti è lo slogan del tutto irrealistico che avrebbero potuto scegliere quelli che volevano mandare la Dc all’opposizione.

Con Landini siamo su un piano più difficile da gestire e da far comprendere, ma sostanzialmente il tema è lo stesso.
Il capo della declinante Fiom non riesce a farsi credere, quando dice di voler costruire una radicale opposizione politica a Renzi non per questo volendo fondare l’ennesimo partito della diaspora della sinistra. Invece – non so neanche quanto ne sia consapevole – ha perfettamente ragione.
A meno che non faccia già parte del ceto politico, a nessuna persona raziocinante verrebbe in mente di sfidare Renzi in campo aperto, politico o elettorale. A Bersani, ai suoi della minoranza del Pd, ai vendoliani di Sel tocca farlo: stanno già dentro questo gioco, non ne hanno un altro né saprebbero farlo. Cercano di resistere in una riserva sempre più ristretta, assediata, bombardata innanzi tutto dalla diffidenza e perfino dal disprezzo dell’opinione pubblica critica anti-renziana alla quale dovrebbero rivolgersi.
Perché Maurizio Landini, dall’alto delle sue poltrone televisive, dovrebbe mischiarsi a questa piccola folla in disperata ricerca di una guida? Per finire ultimo nell’elenco delle delusioni dopo Cofferati, Vendola, De Magistris, Ingroia, Tsipras?
Anche nella testa di Landini la competizione col Pd di Renzi sul campo elettorale-parlamentare è perduta in partenza, neanche da tentare. Confusamente immagina altro, un nuovo inedito tipo di bipolarismo: da una parte il governo, il parlamento, i partiti, le elezioni, una sfera egemonizzata per lungo tempo da Matteo Renzi; dall’altra parte la società, i movimenti, le associazioni, sotto la guida del sindacato e possibilmente dell’intera Cgil, una vasta opposizione diffusa di cui farsi leader, volto mediatico, il portavoce dell’Italia sofferente e incazzata che non si fa ingannare dall’ottimismo del premier.

Anche qui, dunque, più che ingaggiare uno scontro diretto con Renzi lo si evita, ci si sposta su un terreno “altro” sperando di costruire una presenza “politica non-politica” in attesa che il fenomeno renziano si consumi da sé, o imploda nei propri errori.
Davvero Matteo Renzi può dormire fra due guanciali, come gli pronostica Gianfranco Fini ignorando la vulgata dem sul leader che non dorme mai. Casomai sarà giusto chiedersi che tipo di democrazia politica sta venendo fuori, visto che le uniche opposizioni alla maggioranza di governo (comprendendo nella fenomenologia anche Cinquestelle, com’è evidente) hanno deciso che per qualche anno si occuperanno d’altro.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.