Repubblica dovrebbe ascoltare le critiche

Invece di essere risentiti per le parole dell’ingegner Carlo De Benedetti proferite su La7 a “Otto e mezzo” mercoledì 17 gennaio, i giornalisti di Repubblica, a cominciare dal direttore Mario Calabresi, dovrebbero ringraziarlo. Perché l’accusa di confezionare un giornale ormai privo di identità è sicuramente fondata (lo dico da lettore che dal 1986 acquista regolarmente una copia del quotidiano e che da mesi fa una fatica enorme a individuarne una identità) ma fornisce loro un formidabile alibi per buttare la palla in tribuna e parlare d’altro. Convergendo purtroppo su uno dei terreni più praticati in Italia: quello del vittimismo.

Così è tutto un addolorarsi. Per:

– l’affronto subito da Eugenio Scalfari, definito nientemeno che vanitoso. Mentre il suo «me ne fotto» indirizzato all’ingegnere che aveva osato dissentire da lui sulla scelta pro Berlusconi tra il Cavaliere e Di Maio era solo, come tiene a puntualizzare Francesco Merlo, «un’espressione goliardica che Eugenio Scalfari ha consapevolmente usato non per evadere ma per alleggerire una situazione molto spiacevole. La vaga parolaccia che ammiccava al suo contrario, gli era insomma servita per far sapere che la fine dei rapporti con Carlo De Benedetti gli dispiaceva ma che era saggezza non compiacere gli sciacalli»;

– il prestigio della testata messo a rischio da un’intemerata che «si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta» (comunicato del CdR del 18 gennaio);

– lo smarrimento in cui è caduta la redazione da cui richieste accorate all’attuale presidente del gruppo editoriale Marco De Benedetti: «In redazione c’è molto più di un sentimento di incomprensione. Le dichiarazioni di suo padre hanno provocato un grave danno al giornale. E non credo che nel tentativo di assolverlo si possa dire come San Paolo in una lettera ai Romani: faccio il male che non voglio». Oppure: «Le centinaia di persone che ci lavorano sono preoccupate per il prestigio della testata. Serve la fiducia e la fiducia deve fondarsi su basi umane. I piani che ha in mente sono improntati alla difesa o alla crescita?». O ancora: «Chiederà all’Ingegnere di fare un passo indietro, di lasciare anche la carica di presidente onorario della società?» (queste alcune delle domande del vicedirettore Dario Cresto-Dina nell’intervista a Marco De Benedetti pubblicata il 21 gennaio).

Ora, della lunga storia di imprenditore e finanziere di Carlo De Benedetti si possono dire molte cose, che ha fatto bene, che ha fatto male. Le cronache economiche degli ultimi decenni e una corposa saggistica sono piene di ritratti del personaggio, per cui farsene un’idea non è difficile. Ma non è di questo che qui si parla. Qui il punto in questione è un altro ed è uno e uno solo: Repubblica ha ancora un’identità? Carlo De Benedetti ha commesso l’imperdonabile errore, ad avviso dei suoi giornalisti e della direzione, di rispondere negativamente a questa domanda. Ciò che però i giornalisti e la direzione di Repubblica non arrivano a comprendere è che a questa domanda noi lettori, sempre più numerosi, rispondiamo allo stesso modo. Traendone le debite conseguenze rarefacendo progressivamente il rituale acquisto del quotidiano.
Ha voglia Scalfari a spiegare che «oggi Repubblica cerca con coraggio nuove strade, sperimenta, si rinnova, scommette sul futuro ma non è vero che ha perduto l’identità e che non aggredisce la politica». Oppure Calabresi che «quanto alla linea editoriale, all’identità e al coraggio sono convinto che Repubblica abbia saputo aggiornare le sue posizioni in un momento di radicale cambiamento non solo del Paese ma anche dell’area culturale che questo giornale ha sempre rappresentato e interpretato».

Come non ravvisare in simili granitiche certezze il rischio che poi «chi si loda, si imbroda»? La realtà, infatti, è ben diversa. A cominciare da una rivisitazione grafica decisamente mal riuscita, che rende il giornale faticosamente leggibile. E poi c’è totale assenza di una linea editoriale in economia, abbondano paginate di retroscena politici insignificanti, spesso gli episodi di cronaca vengono fatti presto assurgere a cervellotici fenomeni di costume con immancabile commento serioso dell’esperto di turno, di inchieste sul terzo settore nemmeno l’ombra, non di rado certi editoriali catturano l’attenzione più per i funambolismi degli incipit che per ciò che commentano, vi sono rubriche che hanno ormai fatto il loro tempo (e mi chiedo come non si siano stancati gli autori stessi a scriverle) e altre che hanno perso molto smalto (penso per esempio alla rubrica “Posta celere” sulle pagine milanesi che fino a quando la curava Piero Colaprico aveva una sua vivacità e salutare irriverenza, mentre adesso che Colaprico è diventato caporedattore e ha il tempo per curare la rubrica solo il sabato chi l’ha sostituito il martedì e il giovedì risponde in modo sempre così inappuntabile e precisino che viene il latte alle ginocchia: ha ragione ancora una volta Carlo De Benedetti quando afferma che «i giornali non devono essere solo latte e miele ma anche carne e sangue»).

È vero che da anni perdura la crisi dell’editoria e che non è facile trovarvi una via di uscita. Ma se basta qualche critica spigolosa, seppur avanzata da una personalità unica nel suo genere come Carlo De Benedetti, per arroccarsi nell’autoreferenzialtà non si va da nessuna parte. Ed è curioso che così si finisce per adottare lo stesso atteggiamento che da mesi il giornale rimprovera a Renzi. Ricordo in proposito un’intervista a Gianrico Carofiglio apparsa su Repubblica giusto un anno fa (il 10 gennaio 2017) in cui lo scrittore, alla domanda su quale fosse la mancanza più grave nella leadership di Renzi, così rispondeva: «Credo che abbia dato all’esterno una percezione autoreferenziale e di poca attenzione alla diversità. Cito Zygmunt Bauman, appena scomparso: “La cosa più eccitante, creativa e fiduciosa nell’azione umana è il disaccordo, lo scontro fra diverse opinioni, fra diverse visioni del giusto e dell’ingiusto”. Ecco, un grande partito progressista deve abbracciare la diversità, trarne una sintesi e, naturalmente, non deve essere un fatto rituale».

Ecco, la stessa cosa dovrebbe fare un grande quotidiano. Senza temere le critiche e il disaccordo.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com