Questa storia di GIRLS, tra razzismo e nudismo

Se non avete costanti rapporti con la serialità televisiva americana, con la sua programmazione e con i commenti all’offerta in generale, potrebbe esservi sfuggita l’incredibile polemica scatenata dal primo episodio di Girls. Parole chiave: sessismo, razzismo, nepotismo, nudismo, altre cose in -ismo, assenza di empatia e i critici sono scemi. Scusate, riassumevo.

Girls è la nuova serie “comica” (poi spiegherò le virgolette, poi) prodotta e trasmessa da HBO, creata/scritta/diretta/interpretata da una giovanissima autrice e regista che si chiama Lena Dunham e che un paio di anni fa ha vinto un premio al SXSW col suo Tiny Furniture, e con la produzione esecutiva di un tizio che si chiama Judd Apatow e che, tra capolavori e solenni stronzate, ha fatto cose come Freaks&Geeks, appartenente alla prima categoria.

Succede che, dopo l’entusiasmo – esclusivamente di critica, non state male se non sapete cosa sia – per Tiny Furniture, HBO va da Lena Dunham e le dice senti, ti diamo uno spazio e dei soldi e tu fai esattamente la cosa che vorresti vedere in tv in questo momento. Lei risponde ok. Perché, siamo seri: chi direbbe di no a un’offerta del genere?

Tiny Furniture è un film quasi autobiografico, quasi documentaristico – è realizzato come un ottimo prodotto di fiction, ma rinuncia a cose trascurabili tipo una trama e dei personaggi che non esistono davvero –, che racconta lo shock da rientro a casa di una ragazza (Lena Dunham) che ha appena finito il college e fa ora i conti con la convivenza forzata con madre e sorella, l’incertezza per il futuro e le latenti aspettative di un suo ufficiale ingresso nell’età adulta. Problemi: madre e sorella sono vere madre e sorella, e in particolare madre è la nota fotografa Laurie Simmons; lo spaesamento di Lena (che nel film si chiama Aura) si svolge in un gigantesco, bellissimo loft di New York, che poi sarebbe davvero la casa della sua famiglia.

Girls segue le orme concettuali del film: ragazze più o meno fresche di laurea vivono a New York più o meno mantenute dai genitori, finché suddetti genitori non decidono di tirarsi indietro, chiudere il portafogli e invitarle a crescere. Cornice di stage non pagati, avventure sessuali discutibili, tentativi di scrivere un romanzo perché potrei essere la voce della mia generazione, o di UNA generazione, un brutale impatto con la realtà non del tutto digerito e rapporti umani squallidamente credibili. La protagonista è sempre lei, Lena Dunham, che questa volta si chiama Hannah: ha un’inutile laurea in letteratura inglese, non vive con la famiglia in un loft tutto bianco ma con un’amica in un appartamento un po’ conciato e viene licenziata da uno stage non retribuito quando prova a chiedere qualche soldo. Tanto il film quanto la serie sono costruiti per comunicare una sensazione di totale inadeguatezza, l’incapacità di entrare in un ruolo che sembrava a portata di mano. No, non fanno ridere. E sì, la critica li ha amati entrambi.

Nei giorni scorsi l’internet – e dico l’internet perché non ho avuto occasione di passeggiare per una strada affollata di New York, insomma, non so bene se se ne parli anche al di fuori dell’internet – si è scatenato contro Girls con una cattiveria inaudita e l’inspiegabile ma molto internettiana necessità di trovare il cosiddetto pelo nell’uovo. Alcune di queste critiche possono essere discusse, la maggior parte andrebbero rispedite al mittente. Vediamole.

Nepotismo, aka sì, ok, ce l’ha fatta ma era già ricca/sua madre era famosa quindi non è giusto. Quando leggete in giro che Lena Dunham è molto giovane, non pensate alla definizione nostrana: non ha ancora compiuto 26 anni, a Milano potrebbe ancora fare l’abbonamento giovani ai mezzi pubblici, 17 euro al mese. Tutti speriamo sempre che i giovani emergano, mostrino le loro capacità, salvino il mondo, trovino un modo per mostrare e far sentire la loro voce. Quando lo fanno davvero, però, si tende a storcere un po’ il naso: non hanno fatto abbastanza gavetta, hanno saltato delle tappe, tutto questo successo puzza di raccomandazioni, eccetera. Siccome di Lena Dunham non si poteva dire è gnocca ed è andata a letto col produttore, perché gnocca non è e ne fa un punto di forza, si va a scavare nelle sue origini non proprio umili e nel lavoro di sua madre (che, ricordiamolo: fa la fotografa, non è George Lucas). A quanto pare parlare di giovani spiantati quando si ha successo e si ha avuto una vita agiata è immorale. Ok.

Emotismo, aka mi piace che tutta questa lista finisca in -ismo. Il pilot si apre con una spiacevole conversazione tra Hannah e i suoi genitori, i quali le comunicano con qualche imbarazzo che non hanno più intenzione di mantenerla. Loro sono ragionevoli, lei è disorientata e si mostra per ciò che è: confusa, viziata, indecisa, impreparata all’autonomia. Non è una protagonista piacevole ma non credo che esista un problema di identificazione dello spettatore. Semmai il contrario: ci si lamenta dell’impossibilità di identificarsi con Hannah, io credo che identificarsi con Hannah sia la cosa più semplice e immediata del mondo. Hannah non è piacevole, ammettere di essere (o essere stati) come lei lo è ancora meno.

Nudismo, aka perché tutte queste scene di sesso, non le vogliamo. Legittimo, ma. In un’intervista (non ho voglia di trovare il link, scusate, fidatevi) Lena Dunham scherzava sul fatto che, per un motivo o per un altro, in questa serie si ritrova sempre nuda. Poi approfondiva: c’è bisogno di più corpi come il mio in tv, corpi sovrappeso, corpi normali. In una scena del secondo episodio il tipo spiacevole con cui si svolgono le spiacevoli scene di sesso le chiede come mai ha tutti quei tatuaggi, lei risponde più o meno ero adolescente, ero ingrassata molto in poco tempo, volevo fare qualcosa che mi restituisse la percezione di controllo sul mio corpo. HBO è famosa per la sua quota tette, Lena Dunham non fa sconti al percorso verso il fondo della protagonista: le due cose, fuse insieme, portano a qualche scena molto esplicita e sgradevole, ma non superflua. Ci dà la misura di quanto sia incontrollabile il senso di fallimento e di abbandono di Hannah. È un abbruttimento consapevole e onesto, coerente col quadro che l’episodio pilota ci presenta.

Razzismo, aka dove avete messo le minoranze etniche non le trovo da nessuna parte. Touché: il cast di Girls, ora del secondo episodio, sembra completamente composto da bianchi. Non si può inventare una giustificazione per questo: è vero, ed è vero che la multietnicità di New York non è rappresentata, ed è anche vero che il cast di Girls per il momento è composto da circa cinque persone, del resto tutte amiche dell’autrice che, come si diceva più su, è cresciuta in un ambiente molto agiato e – ipotizzo – molto bianco. Indubbio che non vada bene, ma non so se questo sia sufficiente per accusare di razzismo Lena Dunham.

Ciò che traspare dalla fiction statunitense è una realtà molto etnicamente connotata. Diciamo che ogni personaggio ha diritto a 10 punti-carattere: ogni caratteristica ha un suo valore predeterminato, e il bianco è il grado zero. Occhiali: 6 punti. Biondo: 4 punti. Antipatico: 5 punti. Intellettuale: 7 punti. Allergico: 1 punto. Omosessuale: 10 punti. Nero/ispanico/asiatico: 9 punti. Cosa significa? Che i personaggi di colore portano con sé un pacchetto di connotazione predeterminato così ingombrante da non lasciare spazio a nessun altro tipo di caratterizzazione se non quelle ininfluenti sulla trama. Intendiamoci, sto generalizzando: esistono serie che danno una caratterizzazione realistica al personaggio di colore, o all’omosessuale, o alla bionda sexy, ma sono poche.

Ciò che mi chiedo è: basta inserire un nero nel cast per evitare l’accusa di razzismo? Perché prendersela con Girls con questo accanimento, se sono tante le serie che usano un cast quasi completamente bianco? Girls pecca di razzismo o di imbarazzante sbadataggine?

Nel mentre, parte del fandom di Hunger Games sta montando un casino non indifferente perché per due personaggi sono stati scelti attori di colore, e dal libro se li immaginavano bianchi.

Vabbè, polemiche a parte, Girls è bello? Sì, però non aspettatevi di ridere: se vi capiterà di identificarvi con la protagonista, probabilmente a fine visione vorrete infilarvi un coltello in pancia.

Chiara Lino

Giornalista del Post. Scrive recensioni di serie tv su Serialmente e ha lavorato come grafica e interaction designer.