Quelli che suonano in mezzo al Superbowl

Mancano ancora 73 giorni, ma la casella ormai è barrata. Tre parole:

Superbowl. Halftime. Show.

La quarta (anzi, quarta-quinta-e-sesta) è stata aggiunta ora:

Black Eyed Peas.

Sarà il gruppo losangelino, il prossimo 6 febbraio, a occupare quella mezz’ora che separa primo e secondo tempo della finalissima del football americano. Dal 1988, quando i Rockettes si presentarono insieme a Chubby Checker ma soprattutto agli 88 (!) pianoforti disseminati nelle 100 yard, il semplice concerto dell’intervallo del Superbowl è diventato il teatro dove rappresentare una sorta di carnevale artistico, che sfrutta una vetrina unica e una platea mondiale.

I prossimi a poterla sfruttare ora sono i BEP: “Maledetta Fergie!” avrà pensato ad esempio la bella Beyoncé, che proprio in settimana – durante un’intervista per ESPN – aveva confessato che il massimo, per lei, “sarebbe esibirsi all’intervallo del Superbowl”. Ma dopo aver incoronato Obama, per fare lo stesso coi nuovi campioni NFL dovrà aspettare ancora.
Che poi – opinione più o meno condivisibile – questi show organizzati durante gli eventi sportivi sono raramente indimenticabili. Dal punto di vista musicale si finisce spesso per assemblare un medley un po’ raccogliticcio di qualche grande successo, tanto per far contenti tutti, con l’attenzione che viene fatalmente fagocitata non dall’interpretazione in sé ma dall’imponente contorno scenografico, spesso maestoso e accecante fino all’eccesso. Un po’ Disney, un po’ Las Vegas, se rendo l’idea.

Il mondo, o almeno il pubblico americano, sembra comunque apprezzare, e tanto.
Lo si intuisce facilmente scorrendo la lista degli artisti che su quel palcoscenico costruito nel tempo di uno spot pubblicitario si sono esibiti negli ultimi anni. Andando a ritroso dall’ultimo Superbowl: The Who, Bruce Springsteen e la sua E Street Band, Tom Petty & the Heartbreakers, Prince, i Rolling Stones, Paul McCartney. Fermiamoci al 2005, ma per rendere l’idea può bastare.
Momenti memorabili però ce ne sono stati parecchi, a patto che non si parli di musica (su due piedi, così, salverei in un angolo la “Purple Rain” del folletto di Minneapolis, quella sì…). Quel che ne esce, infatti, è una sorta di spettacolo circense che strizza l’occhio alla nostalgia di tempi andati e non si risparmia un po’ di voyeurismo.

Ecco allora il famoso “Nipplegate”, lo Scandalo del Capezzolo, con un imberbe Justin Timberlake che strappa – più o meno secondo copione – il costume che avrebbe dovuto coprire il seno di Janet Jackson. “Wardrobe malfunction” divennero le due singole parole più ripetute in quell’inizio di febbraio 2004, ma la spiegazione convinse pochi e non bastò a MTV per evitare il siluramento da ogni futuro Superbowl. Prima, molto prima di una Janet Jackson qualsiasi (già in ritardo rispetto alla Patsy Kensit desnuda di un nostro Sanremo…), anche del concerto di Diana Ross del 1996 si ricordano più i 4 cambi d’abito in meno di mezz’ora e la sua uscita di scena da gran diva in elicottero che la playlist. Degli Stones e della loro reputazione ribelle, quel che rimane addolcito e corretto sta tutto nel palco a forma di linguaccia e in un paio di strofe cancellate grazie ai 5 secondi di differita introdotti dalla TV dopo l’affaire-Janet. Così come (restando in famiglia) oggi fanno più notizia i 3.500 bambini che accompagnarono Michael Jackson nel coro di “Heal the World” che la performance del Re del Pop, o gli enormi stendardi srotolati alle spalle di Bono Vox e compagni con i nomi di tutte le vittime del World Trade Center pochi mesi dopo l’11 settembre.

Musica? Canzoni? Difficilmente rimane qualcosa di indelebile.
Vediamo come va coi Black Eyed Peas.

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).