Puzze che furono

Le città della Russia sanno di nafta e di benzina col piombo, miasmi industriali di chi se n’è sempre fottuto di ecologia e dintorni. Chiunque abbia transitato per le periferie della Capitale o di San Pietroburgo – a me è capitato – oltretutto avrà nasato un terrificante olezzo di cavolfiore che era proprio dell’Europa socialista: milioni di fornellini per il pranzo che si accendevano negli uffici e nei retrobottega. Era così sino a una quindicina di anni fa. Bene: in Russia vogliono cambiare registro. Il sindaco di Mosca si è messo in testa di tornare ai presunti profumi dell’epoca precedente alla Rivoluzione d’Ottobre: vuole piazzare dei giganteschi diffusori nelle zone strategiche della città e un gruppo di esperti di Aromamedia, vincitrice di un appalto milionario, si è già incaricato di individuarle.

Ne ha parlato anche Repubblica di venerdì scorso: si comincerà dalla metropolitana che pure un tempo non esisteva (linea gialla al limone, linea verde alla menta, rossa alla fragola) mentre nella zona di Arbat, zona pedonale del centro moscovita, vogliono immettere «odore di vecchi libri». Nella zona degli Stagni del Patriarca hanno proposto «pane sfornato» e ancora «tabacco» nella Domodedovskaja, vicino a una fabbrica di sigarette. Odore di caffè in via Elektrozavodskaja, zona di torrefazioni. E così via, con la gente che già protesta per le cause più diverse. L’odore di caffè produrrebbe insonnia – si lamentano – e l’odore di sigarette anche peggio, in generale gli aromi vengono associati a patologie come già sta succedendo in Occidente. E qui sta il punto: da una parte l’impressione che i profumi del passato siano immaginati con certo ottimismo, dall’altra il timore che la modernizzazione russa abbia condotto al paradossale desiderio di un solo odore: nessuno.

Se il socialismo puzzava, infatti, un tanfo spaventoso e anche peggiore accomunava le città di Est e Ovest prima della Rivoluzione d’Ottobre. Pare difficile a credersi, ma nel Settecento non esistevano cestini della spazzatura né pulizia delle strade. Nelle vie cittadine si accumulava una quantità incredibile di letame ed escrementi non solo animali. Girare in carrozza era soprattutto un modo per tenersi lontani dalla schifezza delle strade, e non a caso si usavano stivali alti: servivano appunto a guadare gli strati di sporcizia e i rigagnoli di acqua lurida. In città tedesche come Ulm, nel Medioevo, si usavano persino i trampoli. Questa era Parigi secondo un anonimo visitatore italiano del Cinquecento: «Scorre per le strade della città un rivoletto d’acqua fetida in cui confluisce l’acqua sporca di tutte le case e che appesta l’aria: così si è costretti a portare dei fiori con un po’ di profumo per scacciare quell’odore».

Nelle città c’erano pulizie straordinarie solo in occasione di eventi pubblici: a Roma, per esempio, venivano tenute pulite solamente le vie percorse dai pellegrini che andavano dal Papa. La pulizia dei rifiuti lasciati dal mercato ogni tanto veniva appaltata ad allevatori di maiali, perché le bestie almeno tragugiavano tutto. In campagna bastava una fossa, ma in città, per i rifiuti fisiologici, era normale appartarsi dove capitava: in un angolo, all’aperto, in androni, vie, cortili. Sino agli anni Venti, i macellai uccidevano le bestie nelle strade. Ad avere i primi sistemi fognari, paradossalmente, fu Roma antica – sinché durarono – che era più pulita di quanto lo erano Parigi o Londra nel Seicento. Figurarsi Mosca o San Pietroburgo. Per come le intendiamo noi, le abitudini igieniche moderne arrivarono in Europa solo nel diciannovesimo secolo. Valga in particolare l’incipit del romanzo Il profumo di Patrick Süskind, una scrittura, diciamo così, penetrante:

«Al tempo di cui parliamo, a Parigi regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade puzzavano di letame, i cortili interni di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di sterco di ratti, le cucine di cavolo andato a male e di grasso di montone, le stanze non aerate puzzavano di polvere stantia, le camere da letto di lenzuola bisunte, dell’umido dei piumini e dell’odore pungente e dolciastro di vasi da notte. Dai camini veniva puzzo di zolfo, dalle concerie veniva il puzzo di solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso. La gente puzzava di sudore e di vestiti non lavati, dalle bocche veniva un puzzo di denti guasti, dagli stomaci un puzzo di cipolla e dai corpi, quando non erano più tanto giovani, veniva un puzzo di formaggio vecchio e latte acido e malattie tumorali. Puzzavano i fumi, puzzavano le piazze, puzzavano 1e chiese, c’era puzzo sotto i ponti e nei palazzi. Il contadino puzzava come il prete, l’apprendista come la moglie del maestro, puzzava tutta la nobiltà, perfino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra».

La cattiva fama dell’acqua si diffuse soprattutto durante le pestilenze; era opinione comune che aprisse i pori della pelle e che permettesse l’ingresso di aria appestata. Su un libro seicentesco sull’educazione dei bambini possiamo leggere questo: «Lavarsi con l’acqua fa male alla vista, fa venire il mal di denti e il catarro». In un trattato di medicina di fine Quattrocento, poi, avvertono che «i bagni d’acqua riscaldano il corpo e i suoi umori, ne indeboliscono la natura e ne dilatano i pori, sono causa di morte e di malattia».
Il bagno si faceva al massimo come cura. Luigi XIV, il famoso Re Sole, in vita sua fece due bagni in tutto e solo per consiglio dei medici. I nobili del Cinquecento si lavavano mediamente una volta ogni quattro mesi mentre quelli del Settecento praticamente mai: le dame al massimo due o tre in vita loro. La gente normale mediamente ne faceva uno, e aveva una sola camicia raramente lavata. Per coprire gli odori si usavano essenze: un profumo di rosa era consigliato per coprire l’afrore delle ascelle, tra camicia e panciotti si portavano sacchetti di aromi, e i capelli erano sgrassati con polvere e crusca prima di essere incipriati. Fu a quel tempo che facero comparsa colli e polsini che uscivano dagli abiti, simbolo di pulizia e ricchezza per chi li indossava. Per dire: il barone di Schoemberg, nel 1767, cambiava camicia e colletto tutti i giorni ma le mutande solo ogni quattro settimane.

Ma torniamo all’oggi, al paradosso opposto. In alcune zone del Canada e degli Usa, da anni, hanno messo al bando i profumi: dicono che disturbino l’olfatto. In alcuni uffici sono vietati persino deodoranti, dopobarba e colluttori orali. A Ottawa i mezzi pubblici sono interdetti a chi usa l’acqua di colonia: i profumi hanno cominciato a nutrire le stesse ossessioni maturate contro il fumo e sono stupidamente associati a batteri e a sostanze inquinanti. Sono stati chiusi centinaia di panifici e tostature di caffè. A Shutesbury, nel Massachusetts, l’aula comunale è divisa tra chi si profuma, che non si profuma e chi si è profumato di recente. Una forma di fobia. C’è una chiesa cattolica, in Minnesota, che ha annunciato servizi incense-free. La potente Environmental Protection Agency ha più volte ammonito che l’incenso e le candele eccedono gli standard di inquinamento. In Nuova scozia ci sono giornali (il Cronacal-Herald) che hanno proibito ai loro 350 impiegati dopobarba, deodoranti, shampoo e collutori. E non si scherza: i divieti compaiono sugli schermi dei computer e in cartelli appesi nei bagni. È una sindrome: la chiamano «sensibilità chimica multipla» (MCS) e associa ogni odore a un campanello d’allarme che avverte della presenza di una sostanza chimica nell’aria. Quanto ci metteranno, in Russia, ad arrivarci? Le prime avvisaglie ci sono già, visto che i diffusori di profumi, come detto, non sono graditi a tutti. E suona difficile non moraleggiare, osservare cioè quanto il benessere permetta allergie praticamente a tutto. Difficile che un povero possa permettersi la sindrome da Sensibilità Chimica Multipla. Ma in Russia, si sa, i nuovi ricchi non si contano.

(Pubblicato su Libero
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Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera