Il ricordo di una riunione con Pietro Ingrao

È stato uno dei momenti più intensi che ho vissuto da giornalista politico. Quei momenti quando hai l’impressione di essere testimone di un piccolo o grande momento storico.
Eppure non è di un evento storico che parlo, assolutamente no, bensì di una normale riunione alla quale partecipai nella veste di caporedattore del manifesto agli albori degli anni ’90. Una riunione come tante altre (se ne facevano centinaia), solo che quella volta in quella stanza al terzo piano di via Tomacelli, oltre qualcuno di noi “giovani”, c’erano Pietro Ingrao, Rossana Rossanda e Luigi Pintor, ovvero tre grandissimi protagonisti della storia del comunismo italiano. E quella riunione, convocata per discutere il progetto di una nuova rivista da allegare al quotidiano, divenne sotto i nostri occhi tutt’altro: la sommessa, cortese, durissima resa dei conti fra gli attori di una vicenda clamorosa consumatasi nell’Italia di oltre vent’anni prima.

Il Pci era stato sciolto da poco. Il manifesto, tutt’altro che unanimemente, si era opposto alla svolta di Occhetto. Ingrao era rimasto fuori dal nuovo Pds ma una volta di più non aveva voluto consumare fino in fondo la rottura: non era andato con Rifondazione comunista, aveva deciso di rimanere “nel gorgo” (cioè in una posizione intermedia tra i soggetti politici che si stavano organizzando in contrapposizione reciproca: seguii per il manifesto il seminario di Arco di Trento nel quale fece questo annuncio), si era riavvicinato agli ingraiani di tanti anni prima per assumere con loro iniziative culturali, giornalistiche, politiche. Come, appunto, una rivista di riflessione e battaglia da far uscire col manifesto.

E qui si consumò, alla presenza di pochi allibiti di noi, nati alla politica tra gli anni ’70 e ’80, l’incredibile coda di un famosissimo congresso comunista, il dodicesimo, del 1969. Il congresso nel quale per la prima volta nella storia del Pci si era palesata un’opposizione interna e, sul tema dell’invasione della Cecoslovacchia e del rapporto coi movimenti post-68, Pintor, Rossanda e Aldo Natoli si erano rifiutati di allinearsi alla linea del partito avviandosi su una strada che li avrebbe portati all’espulsione.
Erano dirigenti ingraiani. Ingrao però non era stato con loro, fedele alla convinzione di dover rimanere sempre e comunque “dentro”.

In seguito, durante tutta la storia del manifesto, i rapporti con il capo della sinistra comunista sarebbero rimasti sempre comunque buoni. Ma qualcosa evidentemente non si era mai riaggiustato. E quando, infine sconfitto per sempre nel proprio partito – anzi, addirittura privato del partito – Pietro Ingrao si ripresentò alla porta del manifesto, il suo arrivo sembrò un esito naturale. Come una storia che ricominciasse. Solo che nulla può ricominciare uguale, dopo tanto tempo e tante ferite. E il grande Ingrao ebbe, per una volta, un difetto di sensibilità, pensando di poter riprendere il ruolo di guida – che aveva avuto per una vita intera nelle grandi vicende della storia del comunismo – in quella redazione povera, anch’essa sempre sconfitta, ma orgogliosa delle scelte e delle battaglie che aveva fatto dopo aver avuto il coraggio di rompere col Pci.

E così accadde, che dopo aver sentito il vecchio capo dare le sue indicazioni per la nuova iniziativa politica da prendere, sentimmo il nostro fondatore Pintor ribattere con quella pacata asprezza di cui avevamo letto solo nei libri, come immaginavamo che discutessero tra loro Togliatti e Longo, Amendola e Alicata. Per dire molto chiaramente (ma non con queste parole) che no, dopo tutti quegli anni Ingrao non poteva pensare di venire a dettare la linea a compagni che vent’anni prima aveva lasciato espellere quasi senza combattere. E che naturalmente la rivista si sarebbe fatta, ma che il manifesto non si sarebbe regalato a chi per tutto quel tempo aveva preferito rimanere nella Grande Casa (sbagliando ogni analisi e ogni mossa politica, questo Pintor non lo disse ma tutti sapevamo come la pensasse). Non ricordo le frasi esatte, ricordo il clima e l’emozione fra di noi, poco più che testimoni. La rivista nacque, ebbe esistenza stentata. Ingrao capì, prese atto, si mise con grande naturalezza in una posizione laterale. Il gruppo che alla fine degli anni ’60 aveva scosso il Pci ed era arrivato a sfidare l’ortodossia sovietica non si ricompose davvero mai più.

Per carità, quel giorno non c’era stato chissà quale scontro politico, era stata “solo” la chiusura di una ferita rimasta aperta troppo tempo. E, raccontata oggi, questa pare una vicenda davvero piccola rispetto alla grandezza di Pietro Ingrao, di Luigi Pintor, di tutta quella storia. Ingrao è stato per molti decenni un protagonista della vita civile e politica del Paese, sotto molti aspetti un uomo modernissimo e anzi un precursore.

Sì dunque, una vicenda piccola. Ma molto significativa del carattere e dello stile di un’epoca, per me che poi ho visto all’opera generazioni di politici molto più leggere, agili, opportuniste: quando le rotture si consumavano tra personalità forti, nel calore di potenti svolte storiche, e penetravano nel vivo dei corpi e delle esistenze, poi non finiva tutto a battute sui giornali, come capita oggi. E io mi considero molto fortunato per aver conosciuto anche quell’ultimo spezzone di un’Italia, di una politica, di una storia tanto diverse.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.