Piantare un albero a Pomigliano

Digerita a fatica la mappazza dell’ennesima metafora sportiva mutuata all’economia e di tre espressioni inglesi che, usate ripetutamente, appesantiscono le palpebre anche al lettore più ben intenzionato, l’editoriale di ieri di Gianni Riotta sul Sole 24 Ore dedicato al caso Fiat-Pomigliano si rivela una sorta di paradigma della “veduta corta” che affligge l’odierno “racconto” della vita d’impresa.

Intitolato “O Pomigliano o Domenech” (la metafora sportiva, appunto, aleggiante sin dal titolo) e infarcito, a più riprese, di locuzioni come World class football, World class management, World class manufacturing, l’articolo del direttore del quotidiano di Confindustria lascia intendere che oggi i margini di manovra sono talmente ridotti che al più si può scegliere, come si suol dire, l’albero al quale è più conveniente “impiccarsi”.
Scrive a un certo punto Riotta: «È l’equazione impossibile del nostro tempo, sui cui le menti migliori, dai leader agli studiosi, stanno lambiccandosi: come far quadrare il rigore necessario nei conti dopo generazioni di debito facile con un esercito di operai, precari, impiegati, piccole e medie aziende boccheggianti che cercano occupazione produzione. E in questo quadro vogliamo dire no alla sfida di Pomigliano?».

A parte il fatto che sarebbe interessante, come sottolineava Luciano Gallino qualche giorno fa su Repubblica, «vedere quante settimane resisterebbero a un simile modo di lavorare coloro che scuotono con cipiglio l’indice nei confronti dei lavoratori e dei sindacati esortandoli a comportarsi responsabilmente, ossia ad accettare senza far storie le proposte Fiat».

A parte il fatto che magari fosse solo quella enunciata da Riotta l’equazione impossibile del nostro tempo perché purtroppo ce ne sono molte altre: veri rompicapo. Per esempio, quella del “conflitto d’interessi” del cittadino-consumatore, etichettata efficacemente da Robert B. Reich, già ministro del lavoro con Clinton, come «patto faustiano che offre ai consumatori la possibilità di grandi affari perché vessa i lavoratori e la collettività». In sostanza, spiega Reich, «noi possiamo anche biasimare le grandi corporation, ma in effetti facciamo affari con noi stessi. Quanto più è facile fare per noi buoni affari, tanto più forti sono le pressioni verso il basso dei salari e dei benefici».

A parte il fatto che questioni di simile portata non si affrontano e tantomeno risolvono con quella perentorietà verbale così distintiva della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che, piuttosto che facilitare il dialogo, finisce con l’indispettire: «È incredibile che davanti a un’azienda che va contro la storia, prende produzioni dalla Polonia e le importa in Italia e investe 700 milioni di euro, ci sia un no» (non riesco proprio a immaginarmi Marchionne che fa qualcosa contro la storia). E ancora: «Dire no a un investimento di 700 milioni da parte della Fiat a Pomigliano è cecità enorme» (consiglierei alla Marcegaglia, se non l’avesse già fatto, di leggere “Cecità” dell’appena scomparso José Saramago per avere un’idea di come questa parola si possa prestare a molteplici interpretazioni).

A parte tutto questo, compresa naturalmente l’inadeguatezza innanzitutto culturale del sindacato a rappresentare le nuove istanze del mondo del lavoro, il vero bivio che abbiamo di fronte è quello tra un perenne stato di emergenza (non di rado costruito ad arte per assicurarsi potere e che, magistralmente, Zigmunt Bauman definisce la “tirannia del momento”) che accorcia ogni sguardo e al massimo induce a scegliere, come dicevamo, l’albero a cui “impiccarsi”; oppure piantare nuovi alberi, ossia cercare soluzioni nuove, uscire dalla logica dei ricatti e degli aut aut, riscoprire un’idea condivisa di bene comune che faccia sentire tutti partecipi di un unico destino e che, finalmente, proietti nel futuro.

In un bel romanzo di qualche anno fa, intitolato “Cambio di stagione”, a pag. 113 (dell’edizione economica) si legge: «Quando pianto un albero io non so se sosterrà con i suoi rami il cappio di un impiccato o se darà rifugio ad un monaco pellegrino. Io lo vedo verde nella mia fantasia, ma la neve lo imbiancherà e il sole lo ingiallirà. Piantando un albero io non ne determino il destino: ma piantare alberi è una cosa buona».

L’autore è Gianni Riotta. Ma è stato scritto quasi vent’anni fa, era un’altra stagione.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com