Perché gli anti-renziani perdono sempre

Non sono un tifoso delle larghe intese o del patto del Nazareno a prescindere (a prescindere dai suoi effetti, dall’efficacia delle riforme che ne conseguono, dalla liceità delle convenienze reciproche dei contraenti), però c’è da rimanere sbalorditi di fronte alla raffica dei titoli di apertura dei quotidiani e dei commenti più o meno giornalistici e/o politici: dov’è la novità (e la notizia) nel fatto che i parlamentari di Berlusconi risulteranno decisivi nell’approvazione dell’Italicum rivisto e corretto, dopo esser già stati decisivi nel votare la versione precedente della riforma elettorale e nel primo passaggio delle leggi costituzionali su bicameralismo e poteri delle Regioni?

L’accordo tra Renzi e Berlusconi può piacere o meno, ma spacciare queste giornate di gennaio come un momento di clamorosa svolta serve solo a chi deve alimentare tensione e attenzione intorno a sé e alle proprie testate. È abbastanza evidente che la vera notizia, a un anno esatto dal patto del Nazareno, sarebbe stata se uno dei contraenti l’avesse stracciato, magari il PD approvando una legge elettorale con Grillo.

Viceversa, si consuma ora una vicenda che procede da mesi con una continuità e solidità inusuali per la politica italiana, contro la quale si sono battute svariate opposizioni interne ed esterne ai partiti e si sono già minacciati strappi, scissioni e abbandoni senza che nulla di tutto ciò effettivamente accadesse. La novità è che nel frattempo il piatto s’è arricchito con la scelta per la presidenza della Repubblica, coincidenza che – dovessimo giudicare oggi, domani chissà – sta perfino rafforzando la tenuta dell’accordo bipartisan, invece di mandarlo in crisi.

Non c’è da celebrare alcuna leadership napoleonica, solo da rimettere coi piedi per terra un racconto della politica meno concitato e più comprensibile di come viene presentato. Dopo di che, è chiaro che le votazioni per il Quirinale non saranno tranquille né del tutto controllabili dai leader, e che questi ultimi sono sempre sul punto di clamorose gaffes, come quella renziana sull’articolo 19 bis del decreto fiscale che alleggerirebbe la posizione processuale di Berlusconi e che in questo momento è in stand-by, inopportuna ombra sulla nomina del successore di Napolitano.
Detto questo, c’è una descrizione della politica che spiega tutto esclusivamente in termini di inciuci e scambi sotterranei, mentre proprio la storia dell’Italicum restituisce invece l’importanza di alcune esplicite e dichiarate scelte strategiche dei vari attori in campo.
Bastano due soli esempi.

Si discute tanto di preferenze e liste bloccate, spesso con capovolgimenti di fronte e di opinione rispetto al passato (il tema della scelta degli elettori è importante, basta intendersi sulla circostanza che in qualsiasi sistema, dal proporzionale della Prima repubblica passando per il Mattarellum della Seconda fino all’apoteosi del Porcellum, i partiti si sono garantiti il modo di portare in parlamento quote più o meno ampie di personale politico selezionato da loro non dai cittadini, e questo anche per alcune buone ragioni). Ma l’autentica novità sistemica dell’Italicum rivisto è un’altra, e sta nel premio di maggioranza attribuito alla lista e non alla coalizione, col che in teoria si chiude la stagione delle grandi ammucchiate e si restituiscono dignità e chances ad aggregazioni omogenee almeno nella sigla (per quanto si voglia considerare per esempio omogeno il Pd adesso, ma qui il discorso diventerebbe lungo e diverso).

Renzi è approdato a questa soluzione in maniera come al solito improvvisata, spinto dal 40,6 per cento delle Europee. Perfino nell’estemporaneità renziana c’è però una logica, se è vero che porta al completamento di un disegno antico, tipicamente prodiano quindi degli anni nei quali Renzi si avvicinava alla politica, che considerava l’Ulivo e le coalizioni come transizione necessaria a un sistema idealmente bipartitico, oppure ormai tripartitico come nel frattempo sono diventate anche Regno Unito e Francia.

Il secondo fattore politico, non inciucista, della vicenda in corso ci porta dalle parti di Beppe Grillo.
Se la dissidenza democratica non è mai riuscita a strappare più di qualche correzione ai testi di Renzi (Jobs Act, lo stesso Italicum, riforme costituzionali) è perché è costretta a manovrare avendo sempre un muro alla propria sinistra, nessuna sponda e nessun sostegno da parte del secondo gruppo parlamentare di Camera e Senato.
Qui non c’entrano gli inciuci di Renzi, qui c’entra l’identità del Movimento 5 Stelle e la decisione originaria di Grillo e Casaleggio – mai revocata e secondo me perfettamente coerente – di tenere il movimento fuori da ogni possibile gioco di Palazzo.

Oltre tutto la cultura politica di Bersani o D’Alema è incompatibile con quella grillina molto più di quella di Renzi stesso, dunque alla minoranza del PD rimane davvero ben poco da fare e i suoi ripetuti fallimenti vengono ingigantiti dalle aspettative mediatiche ben oltre l’effettiva responsabilità di persone come Fassina o Gotor (ai quali infatti converrebbe abbassare, non esaltare, le attese verso le loro possibilità di far davvero male al premier-segretario).
Per questi stessi motivi, e mettendo in conto ogni possibile smentita dei fatti, gli avversari di Renzi non dovrebbero riporre grandi speranze neanche nell’elezione del capo dello stato, per quanto essa sia il teatro ideale di qualsiasi tirannicidio.

Per superare l’ostacolo, a Renzi e Berlusconi basterà non essere voraci, e convergere su un candidato che pur senza “appartenere” al patto del Nazareno segni e anzi approfondisca la linea di faglia che né Bersani né D’Alema né Fitto possono permettersi di superare: quella che divide tutti gli altri partiti dal Movimento 5 Stelle. Magari non sarà una personalità esaltante (non è scritto in Costituzione che debba esserlo) né una novità travolgente: l’importante è che quel nome obblighi le dissidenze interne di PD e Forza Italia a fare i conti con l’assoluta mancanza di spazi e di alternative.
Che è un dato conclamato e ricorrente della politica di questo momento, non l’effetto di una trama para-massonica.

PS. Per aggiornare un pronostico avanzato nell’ultimo post, continuo a pensare che due attuali giudici di corte costituzionale siano i candidati più forti. Ma, come dice lo stesso Renzi, è ancora presto per dire.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.